RECENSIONE #29: L’ultima tentazione di Cristo, USA, 1988, di Martin Scorsese

L'ultima tentazione di Cristo

In memoria di Michael Ballhaus

Pochi tra i circa duecento film con protagonista Gesù hanno saputo trattarne la vita e gli insegnamenti con originalità senza temere ripercussioni o censure e tra questi rientra il coraggioso L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese, tratto dal romanzo L’ultima tentazione di Nikos Kazantzakis e sfortunatamente uscito nel 1988. Sfortunatamente perché il progetto ebbe inizio nel 1983 sotto la Paramount per poi essere cancellato, in seguito a numerose lettere di protesta, a quattro giorni dall’inizio delle riprese e ripartì grazie alla Universal dopo cinque lunghi anni, con conseguente re-casting, cambio di location da Israele al Marocco e revisione, ad opera di Jay Cocks e dello stesso Scorsese, della sceneggiatura già pronta e scritta da Paul Schrader. Ciononostante nacquero ugualmente accese polemiche, dalla condanna della Chiesa cattolica prima dell’uscita nelle sale al banno tuttora permanente a Singapore e nelle Filippine, dalla reazione indignata di Zeffirelli al festival di Venezia al fuoco appiccato in un cinema parigino da alcuni integristi. In verità, nella sua eterodossia, la pellicola è pienamente rispettosa e priva di qualsiasi accenno blasfemo, risultando piuttosto un interrogativo scomodo per chi si rifugia nella piattezza del credo e ritiene di poter seppellire per sempre i propri dubbi. L’incontro tra lo scrittore greco, comunista agnostico da sempre perseguitato dalla Chiesa ortodossa, e il regista italoamericano, cresciuto in un ambiente fortemente cattolico, crea un’indagine nuova, per nulla dogmatica, che grazie al fatto di non basarsi sui Vangeli può permettersi qualsiasi scelta eppure resta sempre dentro il confine della provocazione intellettualmente stimolante e non scade mai nella sfida all’autorità o nella bestemmia. E se il soggetto cartaceo si allontana dalle Sacre Scritture, Scorsese si adegua e rinuncia alla canonica magnificenza dei kolossal biblici in favore di un’estetica minimalista maggiormente in sintonia con il luogo e il contesto mostrati, sulla scia de Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini; un’estetica che regge alla perfezione e lascia spazio a sequenze tipicamente scorsesiane negli ultimi trenta minuti grazie anche allo slancio creativo fornito dalla fotografia satura di cromatismi di Michael Ballhaus e dal montaggio perfettamente in crescendo di Thelma Schoonmaker. Tornando al contenuto, la principale tesi esposta nel romanzo è che il Cristo fosse sì privo di peccato, ma non immune alla tentazione: il last nel titolo equivale ad un until the end, poiché esprime lo sforzo disumano che egli ha compiuto nel prevalere su di essa persino nel momento della morte, mentre veniva torturato e deriso; se non l’avesse fatto la parola dei profeti non si sarebbe compiuta, non ci sarebbe stata alcuna espiazione dei peccati del mondo e la missione in veste di martire predicatore sarebbe fallita. In breve, la disposizione al sacrificio e alla rinuncia da parte di chi proclamava a gran voce il comandamento dell’amore rende servì a conferire maggiore autorità al comandamento stesso, necessario per i bisognosi e, di conseguenza, per la fondazione della comunità ecclesiastica. Ma questo messaggio strettamente religioso è subordinato ad un tema soltanto ascetico e cioè la battaglia tra la carne e lo spirito. Emblema di tale conflitto è l’Incarnazione, ovvero come potesse il Redentore essere simultaneamente “vero Dio e vero uomo“, mistero rivisitato da Kazantzakis in un’ottica più “realistica”. Gesù è semplicemente un essere umano che funge da tramite e soffre perché non capisce cosa gli stia succedendo, cerca dei segni da parte dell’Onnipotente e in tutta risposta ottiene manifestazioni del demonio, vorrebbe rimanere un comune mortale mentre il suo cammino gli impone di rinunciare a tutto ciò che ha di più caro per annunciare la buona novella. Nella rappresentazione del personaggio, oltre alla superba interpretazione di Willem Dafoe, gioca sicuramente un ruolo importante il tocco di Schrader, il quale delinea un protagonista soffocato dai tormenti e dalla solitudine come lo era Travis Bickle in Taxi Driver, con l’ulteriore pena di essere schiacciato da forze esterne e oscure la cui manifestazione pare una crisi schizofrenica. Pare quindi che si narri di un Gesù privo di una propria personalità e incapace di scegliere per se stesso (il che può naturalmente lasciare perplessi, dato che il film si mantiene apposta sul vago in varie occasioni) quando in realtà la paura e l’insicurezza fanno parte, assieme alla lussuria e al potere, delle principali tentazioni dell’uomo e la vittoria su di esse dopo un allucinante viaggio in una vita alternativa serve da monito esemplare per le generazioni future. Questo Gesù disegnato da Scorsese fu per gli spettatori degli anni Ottanta, materialisti in un mondo in preda al capitalismo sfrenato promotore di egoismo e allontanamento dalla spiritualità, un affronto, oggi invece è diventato una vittima con cui immedesimarsi, una risposta alle crisi esistenziali e al desiderio di tornare a credere in qualcosa per espiare il fardello della colpa;  il suo continuo interrogarsi se sia un pazzo in preda ad allucinazioni uditive o un vero promotore di salvezza per i fragili peccatori non merita certo “il silenzio che si deve alla mediocrità” ordinato dalla Conferenza Episcopale Italiana, anzi, svela altre tematiche e nuovi punti su cui discutere per mettere alla prova la nostra fede. Altri punti di forza di questo semi-capolavoro sono gli attori secondari, bravi quanto Dafoe, e la colonna sonora di Peter Gabriel, un potente concentrato di rock, new-age e world music pubblicato l’anno successivo nell’album Passion. Il doppiaggio non riproduce la contrapposizione l’accento newyorkese degli ebrei e quello british dei romani, ma per adattamento e scelta delle voci è comunque di grande valore. Nell’anno di uscita Scorsese iniziò a leggere Silence, nella cui trasposizione avrebbe approfondito il tema della manifestazione tangibile del divino e della preghiera.

Voto: 8/10

RECENSIONE #28: Monty Python’s The Meaning of Life, UK, 1983, di Terry Jones

#Monty Python's The Meaning of Life

Dopo l’uscita nelle sale di Brian di Nazareth (1979) il gruppo comico britannico Monty Python era arrivato all’apice del successo e contemporaneamente si avviava verso lo scioglimento. Ormai Il circo volante era terminato da anni e nonostante le varie collaborazioni tra i membri ciascuno pensava ad una carriera individuale (Graham Chapman, ad esempio, era alla ricerca di fondi per il film Barbagialla, il terrore dei sette mari). Non c’erano quindi nuovi spunti né uno spontaneo e sentito bisogno di tornare a girare insieme. Ma i produttori convinsero il sestetto con laute proposte di guadagno, per cui, dopo lo spettacolo all’Hollywood Bowl (1982), arrivò Il senso della vita (1983), ultima fatica cinematografica del gruppo e, purtroppo, anche ultima apparizione su grande schermo di Chapman prima che un tumore alla gola se lo portasse via nel 1989. Originariamente pensata come un processo con condanna a morte ai sei per la realizzazione di un film di cattivo gusto, la trama fu poi tramutata in un insieme di sketch e canzoni il cui filo conduttore è costituito dalle sette fasi della vita (della prima idea resta comunque traccia nel primo sketch dell’ultima parte, La morte). Il risultato finale si aggiudicò il Grand Prix Spécial du Jury a Cannes e risultò il lavoro filmico firmato Python più apprezzato dalla critica, ma essi non ne rimasero del tutto soddisfatti: privi di un’idea fresca e originale in partenza, i comici si trovarono a fare affidamento ad un’ispirazione “forzata”, probabile causa dei difetti  principali quali la lunghezza o la staticità di determinate scene (una su tutte la camminata del cameriere) e un background forse troppo elitario per la comprensione di alcune battute (vedi la gag sul titolo, scherzoso riferimento ad un libro di Douglas Adams, o l’intera quarta parte). Ciononostante, Il senso della vita resta un più che valido punto d’arrivo sia a livello tecnico che contenutistico. L’esperienza suggerì saggiamente di affidare la regia al solo Terry Jones e la mossa si rivelò vincente, in quanto non si ripresentarono le divergenze nate sul set de Il santo Graal e il budget poté essere utilizzato nel migliore dei modi in scenografie, costumi ed effetti speciali. La trama orizzontale che si sviluppa nei sette capitoli del lungometraggio è invece un pretesto per dare libero sfogo alla surreale e brillante satira tipica dei Python, che qui ha come bersaglio la religione, la tradizione, la guerra, le convenzioni sociali e qualsiasi altra cosa venga imposta durante la nostra caotica vita, della quale è difficile definire il senso, sempre ammesso che ne abbia uno. Tra alti e bassi in questa summa della loro carriera c’è tutto quello che un fan potrebbe desiderare, con l’aggiunta di uno humor ancora più nero e un tono grottesco che vira nelle sequenze più gore mai girate dal gruppo. In sintesi Monty Python’s The Meaning of Life riesce a nascondere i suoi momenti meno felici con una realizzazione di prestigio e un’ultima grande prova recitativa corale, raggiungendo quell’obiettivo che E ora qualcosa di completamente diverso non riuscì a centrare, ossia adattare per il cinema la folle e scatenata innovazione portata in televisione tramite Il circo volante, mostrato simbolicamente nei titoli di coda: una chiusura che oggi provoca una certa nostalgia oltre alle risate per lo sberleffo finale. Menzione a parte merita The Crimson Permanent Assurance, metafora piratesca del mondo finanziario ad opera di Terry Gilliam, dapprima pensata come introduzione animata e infine sviluppata come cortometraggio indipendente dal resto (o quasi).

Voto: 8/10

RECENSIONE #27: La vita è bella, Italia, 1997, di Roberto Benigni

#La vita è bella

Il titolo del sesto film di Roberto Benigni è tratto da una frase di Lev Trockij: « La vita è bella. Possano le generazioni future liberarla da ogni male, oppressione e violenza e goderla in tutto il suo splendore ». Non esiste modo migliore per riassumere insieme trama e contenuto dell’opera. Benigni avrebbe potuto parlare del periodo più buio del Novecento in tutto il suo orrore (come aveva fatto Spielberg con Schindler’s List pochi anni prima) e decise invece di narrare una fiaba in due atti dove il “principe” riesce a conquistare la sua “principessa” senza poter vivere felice e contento e nonostante tutto tenta di nascondere al piccolo figlio la realtà dei lager in modo che il suo mondo innocente non venga distrutto dalle sofferenze che lui sta patendo. Guido Orefice è insomma un uomo privato dell’idillio che si era costruito, ma non per questo meno altruista e buono, un uomo che oggi sarebbe difficile da trovare. Solo un artista dotato di grande fantasia come Benigni poteva assumersi un compito così difficile conscio delle critiche a cui si sarebbe esposto: pensiamo quanto sia stata dura per il nostro, fino ad allora regista di commedie degli equivoci come Il mostro o Johnny Stecchino, farsi accettare anche come regista drammatico. Ma ha creduto nel suo progetto e il successo di pubblico gli ha dato ragione. D’altro canto si tratta, come già detto, di una fiaba e le fiabe, sia sa, vanno al di là del tempo e dello spazio: la storia avrebbe potuto essere ambientata ovunque, avrebbe trasmesso lo stesso tutto quello che doveva trasmettere. L’ambientazione al tempo del ventennio e nei campi di concentramento è una scelta fatta forse per rendere più facile e diretta al pubblico la comprensione del messaggio di fondo, ma non per questo va ad “inquinare” il resto. La regia infatti rende le due ore scorrevoli e piacevoli grazie anche ai paesaggi della meravigliosa Toscana aretina, alle ricostruzioni d’epoca semplici ed essenziali del doppio Premio Oscar Danilo Donati, all’ultimo lavoro alla fotografia di Tonino Delli Colli e agli attori più che adatti alla parte (una Nicoletta Braschi dolce seppur poco espressiva ed un tenero Giorgio Cantarini, oltre che ad un sottovalutato ma intenso Horst Buchholz nel ruolo del dottor Lessing). All’uscita fu criticato quanto applaudito, ma resta un film coraggioso perché mette al primo posto la felicità, perché sceglie di mostrare la generosità contro ciò che ci ha mostrato la storia e perché decide di far rimanere viva la speranza contro tutti  i pronostici. Le risate si mischiano alle lacrime, dopo la gioia viene il dolore e la brutale realtà del mondo cerca di soffocare l’innocenza, ma l’amore resta perché vive in chi lo dona e resta vivo in chi l’ha ricevuto. La vita è bella è pura emozione e commozione, uno dei migliori film da far vedere ai bambini per avvicinarli senza implicazioni politiche o religiose alla Shoah e ai tragici eventi della seconda guerra mondiale. E fu così che nell’anno di Salvate il soldato Ryan, American History X, La sottile linea rossa e Shakespeare in Love, il film vinse ben tre premi Oscar: miglior film straniero (la gioia di Sophia Loren nell’annunciarlo e la camminata di un euforico Benigni sugli schienali delle sedie rimangono ancora impresse nell’immaginario collettivo), miglior attore protagonista (prima vittoria in assoluto di un interprete non anglofono) e miglior colonna sonora a Nicola Piovani, memorabile e melodiosa. Venne candidato anche come miglior film, miglior regia, miglior montaggio e miglior sceneggiatura originale (Benigni ha sempre ricordato il preziosissimo contributo dell’amico Vincenzo Cerami) e vinse il Grand Prix Speciale della Giuria a Cannes, dove Benigni si stese ai piedi del presidente Martin Scorsese per poi abbracciarlo fortissimo. Tanti momenti memorabili che ben esprimono il valore di noi italiani all’estero e la nostra capacità di portare prodotti di qualità ad un pubblico internazionale.

Voto: 8/10

BAT-ANGOLO: Cavaliere Oscuro III: Razza Suprema, #6

A Lorenzo, che ormai non si stupisce più di niente

[ATTENZIONE: QUESTO ARTICOLO CONTIENE SPOILER]

Signore e signori, bentornati al Bat-Angolo, l’antro della letteratura disegnata! Oggi parliamo del sesto numero de Il cavaliere oscuro III: Razza suprema, miniserie di 9 numeri scritta da Frank Miller e Brian Azzarello con Andy Kubert ai disegni e Klaus Janson alle chine. Ormai è da più di un anno che seguiamo insieme questa a-quanto-sembra-interminabile miniserie: prima ci fu l’annuncio di un nono numero, poi l’intermezzo con L’ultima crociata (che ho letto e di cui vi parlerò nel dettaglio prossimamente) e infine l’evento Rinascita che tra serie regolari e miniserie portante ha fermato le altre uscite DC per un po’; aggiungete il consueto ritardo della Lion della distribuzione e il gioco è fatto. Ma alla fine la pazienza premia e anche se in America stanno già aspettando l’ottavo e penultimo numero io e il mio socio Lorenzo siamo stati ben contenti di poter finalmente osservare il contenuto del sesto numero. Perciò basta con le introduzioni interminabili e apriamo le danze!

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La battaglia contro Quar e seguaci è iniziata: i kryptoniani sono solo indeboliti dalla kryptonite sintetica aggiunta al temporale, ma tanto basta ai terrestri per combatterli sotto gli occhi del mondo intero. La polizia non interviene, limitandosi semplicemente a circondare gli alieni per impedirne la fuga. E Batman sadicamente gusta questo momento mentre Superman, protetto dalla radiazioni da un’armatura, lo aiuta. Tuttavia Lara e Baal non risentono degli effetti della pioggia verde, dato che si trovavano fuori Gotham mentre stava cadendo, e quindi il secondo interviene disintegrando un terrestre e distruggendo la Batmobile guidata da Carrie. Quest’ultima sembra sopraffatta, ma all’ultimo scaglia con la fionda un frammento di kryptonite che colpisce in pieno volto Baal. Quando anche Quar viene ferito da semplici armi da fuoco i kandoriani si ritirano; Superman vorrebbe eliminarli una volta per tutte, ma Batman sceglie di lasciarli andare (“Devono leccarsi le ferite. Devono assaporare l’odore della paura“). Purtroppo, a causa della fine del temporale, Quar ha ancora le forze per trapassare il cuore del Crociato Incappucciato con la sua vista calorifica. Bruce è troppo debole per resistere, ma chiede a Clark di non portarlo in ospedale e di dire tutto a Carrie. E così, per la seconda volta, Batman spira tra le braccia di Superman mentre il sole torna a splendere su Gotham…

Il sesto tie-in si intitola Il cavaliere oscuro presenta: World’s Finest #1 ed è scritto e disegnato da Frank Miller. Al sorgere del sole dopo la battaglia vediamo Lara prendersela con Carrie (probabilmente per quello che ha fatto a Baal) e venire fermata da sua madre Wonder Woman, che però la lascia andare via: il conflitto generazionale divide ancora una volta le due guerriere.

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E passiamo al commento, riassumibile con l’espressione “eh ’nzomma”. Davvero, quando ogni singolo numero comincia a sapere di riempitivo è segno che la storia è agli sgoccioli ed è riempita col nulla. C’è da dire che, dopo la realizzazione del prequel, è tornata un poco di grinta e qualche trovata nella scrittura la si intravede, ma si tratta, come sempre, di dettagli di contorno nient’affatto rilevanti, in particolare battute taglienti, un riferimento alle elezioni statunitensi in corso e legami con le tematiche di Batman v Superman. Legami pericolosi, in quanto dal film l’albo eredità tre difetti enormi: la brevità della battaglia cardine, una gestione del tempo molto confusa e riflessioni poilitico-religiose inserite alla carlona (e qui ancora non saprei a chi attribuire la colpa tra Miller e Azzarello). Kubert dal canto suo coniuga sempre bene disegni e azione, ma i guizzi creativi si stanno via via diradando. Infine, come ultimo dente del giudizio da estrarre, il mini-albo allegato. Migliore del precedente, senza dubbio, ma solo per il fatto che Miller non si è lasciato andare. In certe vignette e nella mascolinità di Lara, che è decisamente uno dei personaggi più irritanti mai creati, il vecchio leone prova a dare qualche zampata con il suo vecchio stile fallendo miseramente e risultando, paradossalmente, più efficace (davvero efficace: l’ultimissima vignetta è magnifica) dove è più contenuto, esattamente come aveva fatto con Atomo… a proposito, dove diavolo è finito Palmer?! La trama invece aggiunge poco alla tematica delle generazioni in conflitto, ma è importante per capire cosa succede a Lara dopo la battaglia e perché nei prossimi numeri ci sarà anche Wondie in azione. E dopo questo numero azzardo una riflessione: Razza suprema sta tirando le fila, ma lo sta facendo in modo stanco e fiacco dopo un inizio carico di narrazione ed eventi importanti. A confronto il tanto odiato Cavaliere oscuro colpisce ancora riusciva almeno ad intrattenere regalando momenti genuinamente pregni d’azione e di pathos. L’aria fredda e granitica che si respira non è quella di uno scontro epico all’ultimo sangue, bensì quello di una scaramuccia tra qualche vecchia gloria e alieni chiamati per comodità kandoriani tirata per le lunghe in maniera meccanica e poco ispirata. Gli assi nella manica sono ormai già stati giocati e a mio avviso servirà a poco richiamare altra mitologia batmaniana per strizzare l’occhio ai lettori più colti. Per capirlo si pensi al titolo del mini-comic. World’s Finest era una rivista nata nel 1941 per affiancare a Batman un eroe diverso ogni numero, ma dato che il suddetto compito vene svolto meglio dalla serie The Brave and the Bold la suddetta rivista passò ad illustrare i team-up tra Batman e Superman, i migliori al mondo, appunto; fu un vero simbolo dello stile della Golden Age e chiuse i battenti nel 1986, lo stesso anno del cambiamento portato da Il ritorno del Cavaliere Oscuro, per essere poi riesumata con la serie Superman/Batman. L’espressione qui però richiama la Trinità della DC, composta dai due eroi appena menzionata e Wonder Woman, con l’intento di sottolineare la vecchiaia dei primi due (ormai sostituiti dalle loro parti giovanili in uno scontro che sembra non aver mai fine nell’universo di Miller) e forse la saggezza dell’Amazzone, rimasta fino ad allora neutrale. Tutto questo lo coglie chi si informa e chi prova a ragionare su ciò che viene proposto, ma si tratta spesso di supposizioni e arzigogoli che non donano minimamente spessore ad un progetto la cui superficialità sta prendendo il sopravvento sull’esplorare un mondo alternativo che ha fatto la storia del fumetto americano, non solo di supereroi. L’articolo di oggi finisce qui, ci vediamo al prossimo numero!

Apologia di Reato #1 – Quei nostri pazzi venerdì…

Anno nuovo, strade nuove, dissi nel primo articolo di quest’anno (https://joepicchiblog.wordpress.com/2017/01/24/anno-nuovo-strade-nuove/). Ebbene, ecco la prima. È da ormai quattro settimane che dedico un venerdì alla settimana per guardare trash e B movies di ogni genere: vederli mi attira e mi diverte moltissimo, il che per uno che si proclama un fan sfegatato di Kubrick, Hitchcock, Scorsese e Allen è  peccato almeno veniale. Perciò, a mo’ di espiazione per la volontaria e peccaminosa visione di tali orrori e di scusa verso Stefano e Lorenzo, i due cari amici (o vittime sacrificali, dipende dai punti di vista) che ho trascinato in questo delirante vortice di follia, ho deciso di narrare le tappe del Trash Tour in questa mia nuova rubrica. Apologia di Reato conterrà un po’ di tutto: disamina e voti come nelle recensioni, tono da appassionato ancora più scanzonato e di quello del Bat-Angolo e infine un’analisi che parli degli aneddoti, i segni particolari e i peggiori difetti delle pellicole più becere in circolazione. E come ci ha insegnato la recensione di Natale a Miami (https://joepicchiblog.wordpress.com/2015/05/14/natale-a-miami-italia-usa-2005-di-neri-parenti/), su questi filmacci non c’è mai troppo da dire, per quanto brutti essi siano; a lungo andare si rischia di ripetersi e concentrarsi sulle stesse cose ed ecco perché ne esaminerò 5 alla volta, così da poter controllare meglio le eventuali ripetizioni. Farò SPOILER? Forse, ma non sempre, qualcuna di queste “ “ “perle” ” ” (notare la fila di virgolette) ve la voglio consigliare. Badate bene, solo qualcuna, cioè quei caprolavori contrassegnati con il segno (*), spesso dei cult; per il resto meglio che prendiate atto e buonasera, io vi ho avvertiti! Bene, la lunga premessa è stata fatta, mancano ancora la legenda delle categorie con cui inquadreremo ogni film e una nota prima di iniziare; sperando che l’idea vi possa piacere, buona lettura!

LEGENDA CATEGORIE:

  • Mediocre = da 5-6/10; né imperdibile né evitabile, guardarlo o meno dipende dai gusti
  • B movie = da 5-6/10, talora 7; film a basso budget e senza pretese, mezzo riuscito e d’intrattenimento
  • Film brutto = 5-3/10; in bilico tra un filmetto con qualche errore e un trash pieno di erroracci, non regala nulla se non fastidio, noia o rabbia
  • Z movie/Trash movie involontario = dal 4/10 in giù; film a budget irrisorio repellente sotto ogni aspetto o, in molti casi, blockbuster colmo di fesserie hollywoodiane
  • Z movie/Trash movie volontario = voto non fisso; relizzato in tale maniera o per necessità o per divertimento (vedi Troma), possiede una realizzazione sotto gli standard e trovate impensabili per una qualsiasi produzione di un certo livello
  • So Bad It’s So Good = dal 4-3/10 in giù, talmente brutto e risibile da diventare irresistibile
  • Cult movie = voto non fisso; per quei film che conquistano il cuore di molti appassionati

 

NB. Nonostante i film siano cinque, i venerdì in cui li abbiamo visionati sono stati tre (24 febbraio, 3 e 10 marzo): non imitateci!

 

#1: Parentesi tonde, Italia, 2006, di Michele Lunella*

Trash movie involontario; So Bad It’s So Good

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Vanessa, spaventata dal matrimonio, e Manuela, stanca della propria relazione, si incontrano e fanno amicizia in un villaggio turistico a Tropea e, tra nuove conoscenze e divertenti equivoci, cercheranno l’amore per iniziare una nuova vita. Sì… in teoria! In realtà Parentesi tonde è un filmato da videocamera di 95 minuti creato solo per fare pubblicità agli sciagurati sponsor (tra cui Radio Kiss Kiss e lo stesso villaggio vacanze che funge da location) e, soprattutto, per far comparire tutto il peggio della televisione nostrana. Nel cast, infatti, troviamo Raffaella Lecciso, ossia la sorella di Loredana, come protagonista, Giucas solo-quando-lo-dirò-io Casella, er Mutanda Zequila, l’ex tronista di Uomini e donne Karim Capuano detto l’orco, la contessa De Blanck e tanti altri negati i cui siparietti per mettersi in mostra distruggono il già di per sé flebile filo narrativo, che nell’ultimo quarto d’ora viene annientato da un’interminabile sfilata precedente l’orribile finale. Ad aggravare il tutto c’è una regia inesistente, un comparto tecnico che fa acqua da tutte le parti (specialmente nel sonoro) e una sceneggiatura farcita di freddure, frasi fatte, proverbi e banalità a non finire. 14 giorni di proiezione in 9 sale e solo 9.727 euro di incasso, la Lunella Production (ma esisterà davvero?), dopo la pubblicazione in DVD, avrebbe voluto pure girare un sequel, Parentesi tonde in crociera! Insomma, vantarsi di averlo visto per intero è quasi una vergogna, eppure regala grasse e sane risate dall’inizio alla fine se lo si prende soltanto per uno dei trash più brutti della cinematografia italiana piuttosto che come un triste ritratto del degrado raggiunto dal nostro paese.

Voto: 1/10

 

#2: Jesus Christ Vampire Hunter, Canada, 2001, di Lee Demarbre

Trash movie volontario; So Bad It’s So Good; cult movie

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Dalla Odessa Filmworks, la stessa casa che ha prodotto la saga di Harry Knuckles e Smash Cut (2009). Il film, più famoso per il titolo che per altro, è una specie di parodia satirica di Jesus Christ Superstar con l’aggiunta di combattimenti con arti marziali, vampiri a caccia di lesbiche e continui riferimenti alla moda e alla musica degli anni Settanta. Oltre a questo non rimane granché: la recitazione è tra il piatto e il distaccato, la musica brutta e le coreografie, per quanto fatte apposta in maniera rozza, risultano ancora meno accattivanti per via del montaggio, che rende noioso anche il resto nonostante la durata sia di un’ora e venti. Ci sono delle trovate spassose e delle battute badass, ma ciò è purtroppo insufficiente per giustificare lo status di cult. La “morale” dietro la vena sovversiva è comunque apprezzabile. Non ve lo consiglio, ma potreste comunque divertirvi se siete in compagnia. E tranquilli, è troppo fiacco e demente per risultare blasfemo.

Voto: 2/10

 

#3: Dinosauri, Germania, 2000, di Roswitha Haas*

Trash movie involontario; So Bad It’s So Good; cult movie

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Detto così non tutti potrebbero capire, ma il nome della casa di produzione non lascia dubbi (e scampo): Dingo Pictures, signore e signori, un nome un programma! Quest’azienda tedesca è specializzata in mockbusters dei classici Disney, imitazioni realizzate con i soliti quattro ingredienti: 1) una manciata di fotogrammi per animazioni clonate all’infinito; 2) orribili disegni dalle anatomie ambigue e sfondi colorati con pennarelli scarichi; 3) scopiazzamenti di trama con contaminazioni risibili; 4) tre o quattro attori che doppiano anche in altre lingue per risparmiare. Riguardo al terzo punto, il nostro film accosta in maniera del tutto arbitraria la crudezza di Dinosauri della Disney al classico Alla ricerca della valle incantata: il risultato è risibile a dir poco, specialmente per le voci da transessuali argentini che hanno conquistato il popolo del web. E catturerà anche voi per tutti i suoi 50 minuti di durata: vedere per credere!

Voto: 1/10

 

#4: La croce dalle sette pietre (Il lupo mannaro contro la camorra), Italia, 1987, di Marco Antonio Andolfi*

Trash movie involontario; So Bad It’s So Good; cult movie

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Se si commentasse scena per scena scriverei un pamphlet, per cui andiamo per sommi capi. Immaginatevi un attore di teatro originario di Napoli, cattolico praticante e probabilmente non in buoni rapporti con l’altro sesso che viene scippato nella sua città natale, dove, secondo lui, si possono ritrovare la malvagità e la corruzione che stanno rovinando il mondo. Ed immaginatevi che grazie a dei finanziamenti da parte del Ministero dei Beni Culturali giri un film dell’orrore per esprimere tutto questo. Ecco, l’attore in questione è Marco Antonio Andolfi e La croce dalle sette pietre l’aborto della sua mente impazzita. Lo scarso budget era di soli 150 milioni di vecchie lire, oggi neanche 80.000 euro: una cifra impensabile per girare un horror come si deve, ma l’arte di arrangiarsi scorre potente nel sangue degli italiani e Andolfi non fu da meno, ricoprendo gli incarichi di regista, sceneggiatore, attore principale con il nome d’arte di Eddy Endolf (“altrimenti le distribuzioni non mi prendevano in esame“) e interprete di due ruoli secondari, curatore degli effetti speciali, montatore, doppiatore di sette personaggi, stuntman in due occasioni “perché l’attore aveva paura“, direttore del doppiaggio italiano e inglese, curatore dell’uscita nelle due sale di Palermo e Trapani e supervisore per l’edizione home video! Se il film fosse genuinamente pecoreccio gli si potrebbe fare un applauso e perdonare la povertà scenica; purtropppo Andolfi, come dimostrano recenti interviste, è uno che la pensa all’antica e che si prende dannatamente sul serio e ne La croce dalle sette pietre dà sfogo a tutto il suo ego più che alla sua creatività, cercando di convincerci che quella scempiaggine indossata quando si trasforma sia la versione di un licantropo basata sulla mitologia greca e le icone cristiane e che il film simboleggi la battaglia tra il bene supremo e il male di chi abbandona la via del Signore. A questo desolante panorama si aggiungano: una scenggiatura senza capo né coda, colma di buchi logici, stereotipi e ingenuità; attori sconosciuti e incapaci oppure volti noti messi a casaccio come Annie Belle e Gordon Mitchell (eroe di molti peplum che qui sembra avere un infarto ogni frase invece di recitare); una fotografia e una colonna sonora fastidiose; una scena onirica piena di flashback e flashforward montata con i piedi e con un filtro giallo da mal di testa. Ma il peggio l’ho tenuto in conclusione, come ciliegina sulla torta: il film non soltanto ottenne successo all’estero arrivando fino in Argentina e Giappone, ma gode anche di una seconda versione nominata Talisman in cui, grazie a stock footage da altre pellicole e telegiornali, Andolfi estende la maledizione del protagonista all’Africa intera e ad un cortometraggio sequel intitolato Riecco Aborym, uscito esattamente vent’anni dopo! Putrido da fare schifo, La croce dalle sette pietre, tristemente noto anche come Il lupo mannaro contro la camorra,  è il per nulla lodevole tentativo di sfruttare i residui di un cinema di genere ormai al tramonto a causa della televisione e che, se avesse avuto solamente esponenti come questo, non avrebbe lasciato un bel ricordo ai posteri.

Voto: 2/10

 

#5: L’uomo puma, Italia, 1980, di Alberto de Martino*

Trash movie involontario; So Bad It’s So Good; cult movie

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Alberto De Martino, scomparso due anni fa, ha dato grande prova di sé nel cinema di genere. Tuttavia la sua “punta di diamante” è sicuramente L’uomo puma, realizzato sulla scia del Superman di Richard Donner (1978). Partiamo dall’introduzione: « Una antica leggenda azteca narra che nella notte dei tempi un dio bianco venuto dalle stelle scese sulla Terra e fu padre del primo Uomo Puma ». Lo spettatore dell’epoca, che nella locandina all’entrata del cinema avrà visto un uomo dal costume dorato con dietro la Morte Nera direttamente da Star Wars, cosa si sarebbe aspettato dai prossimi minuti? Io ipotizzo la storia di un uomo che avrebbe scoperto i propri poteri e nel contempo si sarebbe reso conto di essere il discendente di una civiltà extraterrestre accolta dalle popolazioni dell’antico Messico come divinità. E per l’epoca, quando non esisteva ancora internet e il cinema copia-e-incolla made in Italy riusciva ancora a fregare parecchie persone, sarebbe stata una supposizione più che legittima. Ma oggi, con un minimo di consapevolezza e un paio di ricerche in più, chi facesse tali pensieri sarebbe un illuso. Del dio bianco e compagnia, infatti, non verrà rivelato nient’altro. La primissima scena è invece incentrata sul villain Kobras, interpretato da Donald Pleasence, che testa i poteri tecnologici/magici di un’antica maschera azteca (come, dove e quando l’’ha trovata non è dato sapere) sull’improbabile archeologa che l’ha aiutato a trovarla, una Sydne Rome giovane, bella e sciaguratamente non doppiata. Poi il tutto precipita con le improbabili avventure di Tony, atletico (e inespressivo) discendente del primo Uomo Puma, e di Vadinho, sacerdote azteco che dovrebbe aiutare il protagonista ma in realtà è l’unico che effettivamente salva la situazione. De Martino ce la mise tutta per salvare la pessima sceneggiatura, apportando anche un po’ di umorismo sì becero ma che a conti fatti evitò un disastro. Tuttavia c’è un motivo se lui stesso lo definì l’unico passo falso della propria carriera (e quale persona sana di mente non avrebbe apostrofato così un titolo simile?) e Pleasence lo ritenesse l’opera più brutta a cui avesse preso parte. L’uomo puma infatti è divertente per i motivi sbagliati, privo di logica e senza un briciolo di intrattenimento. Il colpo di grazia sono però gli effetti speciali realizzati in pochissimi giorni che mostrano gli “strabilianti” poteri dell’Uomo Puma. È ormai diventata celebre la scena in cui Tony, indossando la cintura, ottiene il suo patetico costume e spicca in volo palesemente davanti ad un blue screen con una musica improbabile in sottofondo identica a Su di noi di Pupo. L’uomo puma è la pellicola definitiva sui supereroi, una spiritosa farsa in grado di far trovare a chiunque il lato comico insito nei film davvero pessimi.

Voto: 3/10

Nota finale: so che avrei dovuto fare anche una recensione, ma la lentezza nel ridefinire questo articolo, a cui tengo moltissimo, per quanto possa essere “leggero”, non mi ha consentito di scriverla. D’ora in poi non vi prometterò più nulla, giuro! Al massimo dirò “Proverò a…”, ma non vi garantisco nulla. A parte molta voglia di scrivere e altri trash in arrivo, naturalmente. A presto!

RECENSIONE #26: The Departed – Il bene e il male, USA, 2006, di Martin Scorsese

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Fu un momento davvero speciale, quasi simbolico, quando nel 2007 Steven Spielberg, George Lucas e Francis Ford Coppola consegnarono a Martin Scorsese l’Oscar per il miglior regista davanti a grandi concorrenti come Clint Eastwood, Stephen Frears, Paul Greengrass e Alejandro González Iñárritu: i più premiati e conosciuti rappresentanti della New Hollywood avevano messo in mano al loro fraterno amico e compagno di avventure negli anni Settanta il riconoscimento cinematografico più ambito, da lui finalmente ottenuto dopo ben sette nomination. La standing ovation successiva fece il resto, coronando la lunga e brillante carriera di un cineasta che ha lasciato un’impronta indelebile nel mondo della settima arte grazie al suo inconfondibile tratto stilistico e alla sua indiscussa capacità di sviscerare l’uomo e i suoi tormenti morali. The Departed possedeva entrambe queste qualità ed è per questo che riuscì a centrare perfettamente l’obiettivo. Senza possedere un soggetto originale, peraltro: si tratta infatti del remake di Infernal Affairs, thriller d’azione hongkonghese diretto da Andrew Lau e Alan Mak. Alla trama non sono stati apportati cambiamenti degni di nota, si parla sempre di un poliziotto che passa informazioni ad un boss mafioso ed di un altro che si infiltra nella banda di quest’ultimo i cui destini si incroceranno pericolosamente in uno scontro senza limiti e senza regole. Ma Scorsese e lo sceneggiatore William Monahan (il cui curriculum, all’epoca, comprendeva “soltanto” Le crociate – Kingdom of Heaven di Ridley Scott) hanno saputo trasformarla radicalmente, aggiungendoci un’atmosfera e degli elementi a cui il maestro ci ha ormai abituato da quarant’anni. Monahan sposta infatti l’ambientazione da Hong Kong alla sua città natale Boston, sporca e opprimente quanto la New York dei bassifondi di Taxi Driver e Mean Streets, e introduce il rapporto padre-figlio che si sviluppa da una parte tra il boss Frank Costello e il poliziotto corrotto Colin e tra la talpa Billy ed il capitano Queenan dall’altra, i temi del doppio, delle identità e dei ruoli invertiti, morti inaspettate che spesso avvengono con un proiettile in testa, l’origine e la filosofia di vita irlandesi dei due protagonisti, una precisa definizione dei ruoli dei personaggi e un’evoluzione psicologica non indifferente. E Scorsese, in un magnifico lavoro di squadra, evidenzia i momenti che più ricordano le sue opere più celebri con i suoi marchi di fabbrica, si “trattiene” quando invece è necessario sottolineare le novità importate dall’adattamento ed elimina caratteristiche fondamentali di Infernal Affairs come il predominante melodramma e i sentimenti visti come sereno rifugio dal grigiore della metropoli per sostituirli con una violenza nuda e cruda nella sua efferatezza visiva. È forse il film di Scorsese più cattivo di sempre e per questo anche il più triste: è un’analisi su come due individui cresciuti nel medesimo ambiente e scolpiti dalle regole della strada prendano direzioni diverse nell’affrontare la vita, dimostrando di essere le due facce di una singola medaglia. Perché è questo che fanno Colin e Billy, poliziotti ante litteram dallo spirito ambiguo, carico di una fusione fra bene e male che li porta, in maniera egoistica, rispettivamente a difendere una posizione agiata e sicura ottenuta con l’inganno e a cercare di sopravvivere e conservare quel briciolo di umanità rimasto. Ma poi la pellicola prosegue e lo squallore circostante della fotografia di Michael Ballhaus ci urla a squarciagola di come non ci sia scampo in questo mondo crudele per i peccatori quanto per i giusti e grazie al montaggio della fida Thelma Schoonmaker questo potentissimo dramma diventa un feroce tango di morte, veloce e scioccante fino all’ultima metaforica scena. Il cast comprende nomi di spessore come Leonardo DiCaprio, Matt Damon, Jack Nicholson, Martin Sheen, Ray Winstone, Vera Farmiga, Alec Baldwin e Mark Wahlberg, uno migliore dell’altro in parti difficili e comunque ben interpretate; ogni attore si impossessa della caratterizzazione del proprio personaggio e la rende più reale e accattivante, complice un regista che ancora una volta valorizza il talento di ogni interprete in modo che tutte le voci contribuiscano ad arricchire lo svolgimento della storia. Un ulteriore applauso va al mix tra la colonna sonora originale di Howard Shore (in cui, oltre agli archi, prevalgono le chitarre di Sharon Isbin, G. E. Smith, Larry Saltzman e Marc Ribot) e i brani selezionati apposta, essenziali nei momenti in cui si contrappongono a soffocanti silenzi. Oltre al già citato Oscar al miglior regista, The Departed vinse anche come miglior film, miglior montaggio e miglior sceneggiatura non originale ed ottenne una nomination anche per Wahlberg come migliore attore non protagonista.

Voto: 9/10

RECENSIONE #25: National Lampoon’s Animal House, USA, 1978, di John Landis

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Per capire il successo di Animal House è necessario osservare la genesi e lo sviluppo del soggetto. Nelle ribelli intenzioni del compianto Harold Ramis avrebbe dovuto essere un concentrato di sesso, droga & rock and roll molto spinto e volgare, nello stile delle future commedie sexy adolescenziali targate Troma. Ma in seguito, con il fondamentale contributo di Douglas Kenney, co-fondatore della rivista umoristica National Lampoon, e di Chris Miller, scrittore di racconti per la sopracitata rivista, i primi abbozzi della sceneggiatura si arricchirono di una trama migliorata e di una comicità sempre demenziale (uno dei produttori era Ivan Reitman) ma più “elaborata” e che non facesse eccessivamente leva sul triviale e sul turpiloquio. La regia venne infine affidata a John Landis, che fino ad allora aveva diretto soltanto Schlock e Ridere per ridere (scritto dal trio Zucker-Abrahams-Zucker, i pazzi e geniali autori de Una pallottola spuntata); inoltre, a parte John Belushi e Donald Sutherland, il cast era composto da attori praticamente all’esordio e caratteristi poco noti. Avrebbe potuto benissimo quindi restare una commedia anonima girata da sconosciuti con l’appoggio della National Lampoon e invece fu un successo enorme, senza il quale probabilmente Landis non avrebbe mai potuto avere carta bianca per The Blues Brothers. La tematica delle scorribande ai tempi del college non era nuova ed era già stata trattata da George Lucas in American Graffiti, sempre ambientato nel 1962. Animal House fu però il primo a far entrare goliardia, situazioni grottesche e teenager pigri, matti e sporcaccioni nei serissimi college americani prendendone in giro la struttura al di là delle vicende vissute dai protagonisti, dando il via ad un fortunato filone che pian piano degenererò fino a riprendere vigore con la saga di American Pie e che non riuscì mai a ripetere questo successo. Tra toga party e battute geniali, attori simpatici soltanto a guardarli e una memorabile colonna sonora con partiture originali di Elmer Bernstein e grandi successi pop come Shout e Louie, Louie, Animal House resta un pilastro del cinema comico e un mito senza tempo, una gemma nella filmografia di tutti coloro che vi hanno preso parte e una visione imperdibile per i fan di Belushi. Le esilaranti gag sono sfidano benissimo il tempo e risultano ancora oggi più divertenti che mai grazie alla regia in stile cartoon di Landis, alla fotografia  autunnale di  Charles Correll e al montaggio di George Folsey, Jr. Pure la “morale”, se esistesse, sarebbe giusta e condivisibile. I Delta non sono semplicemente sfaticati, beoni e deficienti, sono ragazzi che desiderano divertirsi il più possibile prima di diventare adulti e responsabili e che diventano oppressi dal sistema rigido e severo del college, simbolo dell’intero conservatorismo dettato dall’establishment negli anni dei primi movimenti sociali e del preludio alla guerra in Vietnam. L’intera pellicola diventa dunque un inno a ribellarsi alla prepotenza e ai soprusi e a restare allegri e mattacchioni nelle avversità; in particolar modo è l’epilogo a suggerire come non si debba essere colti per essere buoni. In parole povere, ridi e lascia vivere!

Voto: 9/10

RECENSIONE #24: La grande prugna, Italia, 1999, di Claudio Malaponti

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Con i migliori comici dello Zelig“: questa la tagline de La grande prugna, film tratto dai racconti di Claudio Malaponti, anche regista e sceneggiatore all’esordio. Detta altrimenti, un misero specchietto per allodole che tentava di far fluire al cinema l’audience di quello che stava diventando un programma di punta nei palinsesti italiani e che avrebbe determinato la rinascita della comicità “alla milanese” partendo da un locale dedicato al cabaret erede degli spettacoli che animavano le serate al mitico Derby Club. Eppure, sebbene si possa affermare con certezza che la “trappola” non abbia funzionato, sarebbe ugualmente ingiusto dire che il cast fosse di poco conto. Oltre ai parecchi volti noti che avevano partecipato alle edizioni realizzate fino ad allora o che avevano frequentato lo Zelig dall’apertura nel 1986, ci sono infatti vari cameo e partecipazioni delle più svariate celebrità televisive e non: la modella e attrice Natasha Stefanenko, i conduttori radiofonici Savi e Montieri, il telecronista Sandro Ciotti, ecc. E tuttavia una simile selezione di talenti e star non è abbastanza per reggere un film già di per sé barcollante perché privo di una solida struttura su cui appoggiarsi. Malaponti, da autore del soggetto, dovrebbe sapere come sfruttare a dovere la vis comica degli attori, come far parlare in maniera buffa le immagini o come unire le varie storie in un’unica trama. Invece, al posto di un film a episodi o a sketch, realizza malamente un insieme di storielle che seguono in buona sostanza quattro linee narrative, delle quali la principale, punto di partenza e fulcro di tutte le altre, è paradossalmente la più debole. Le squallide gag e battute di contorno non lasciano il segno e, passando da momenti imbarazzanti ad altri completamente idioti, influiscono sul ritmo generale, ora tedioso ora rapido. La regia prova allora a donare un po’ di brio al tutto, ma non bastano dei primi piani da angolazioni insolite, qualche inquadratura fissa più lunga del normale e una fotografia dai colori sgargianti per riuscirci. Tornando infine sul cast, la coralità di base mostra maldestramente tutti senza valorizzare nessuno né per presenza su schermo né per ruolo. Si salvano il simpatico Enzo Iacchetti nei duetti con il suo cameraman, Flavio Oreglio con le disquisizioni sul cabaret del metateatrale personaggio di Amletotò e il duo Pali e Dispari, alias i giovani dallo slang hip-hop Nucleo e Capsula (peraltro gli unici personaggi effettivamente provenienti dal programma), mentre tutti gli altri, pur strappando qualche sorriso, non possono fare più di tanto per esprimere il loro potenziale; ci hanno abituato a tutt’altro livello da apparire soffocati dalla confusione di quest’opera, che comunque non ha intaccato il successo loro o della trasmissione. La grande prugna è, insomma, uno show privo di scaletta, montato senza soluzione di continuità e con ben poca capacità di intrattenere e attirare l’interesse del pubblico. Una pellicola evitabilissima e nient’affatto comica che fallisce nel fornire un ritratto grottesco e surreale della provincia milanese persino nel titolo, che in gergo indica il capoluogo lombardo in contrapposizione ironica con la grande mela newyorkese: un titolo triste per una commedia triste et de hoc satis.

Voto: 4/10

BAT-ANGOLO: Cavaliere Oscuro III: Razza Suprema, #5

A Lorenzo, un grande appassionato come me… fino a questo numero

[ATTENZIONE: QUESTO ARTICOLO CONTIENE SPOILER]

Signore e signori, bentornati al Bat-Angolo, l’antro della letteratura disegnata! Oggi parliamo del quinto numero de Il cavaliere oscuro III: Razza suprema, miniserie di 9 numeri scritta da Frank Miller e Brian Azzarello con Andy Kubert ai disegni e Klaus Janson alle chine. No, alla fine il sesto numero uscirà a gennaio, mentre è in arrivo, dopo questo quinto albo, il prequel The Last Crusade di cui vi ho parlato la scorsa volta. Prequel che, come avrete capito dalla dedica, mi interessa molto di più dello sviluppo di questa serie, ora come ora. Ma lasciate che vi spieghi e partiamo con la trama!

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Mentre il caos a Gotham continua e Batman è preoccupato perché forse non riuscirà a salvare le gambe dell’amico Flash, Kelly ed Aquaman liberano Superman dalla materia oscura con un ago “simile a un diapason”. Bruce recupera la vecchia armatura e si getta in mezza alla folla inferocita con la Batmobile. Il tempo è scaduto e Quar ordina ai suoi seguaci di sterminare i gothamiti, ma proprio allora avviene l’imprevisto: grazie alle apparecchiature sofisticate di Bruce, Flash manipola l’andamento meteorologico concentrando tutte le nubi possibili su Gotham e le insemina di kryptonite artificiale con il Batsegnale. Il piano di Batman appare dunque chiaro: egli vuole canalizzare la rabbia della gente contro il nemico ormai senza poteri e quindi vulnerabile. Egli è comunque troppo debole per combattere, ma Superman, protetto da un’armatura d’acciaio, è pronto a sostenerlo. Lo scontro sta per avere inizio…

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Il quinto tie-in si intitola Il cavaliere oscuro presenta: Lara #1 ed è scritto e disegnato da Frank Miller. In esso vediamo Baal e Lara, scappati di nascosto dal luogo della battaglia, “divertirsi” con degli esseri umani e poi lui fare della avance a lei fino a baciarla.

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Dunque, faccio prima a dire cosa mi è piaciuto di questo numero… niente, non mi è piaciuto niente di questo albo, non c’è una sola cosa che si salvi! Ma andiamo con ordine. Io di solito riassumo la trama nel modo più semplice e lineare possibile, ma qui non ho dovuto fare alcun sforzo: quello che avete letto poc’anzi è esattamente quello che succede, né più né meno. Se avessi messo anche le battute chiave avrei praticamente riscritto l’intero fumetto! Questo numero non fa che confermare gli alti e bassi a livello narrativo di questa miniserie, dove ad un numero inutile e filler ne segue un altro più emozionante se punta all’azione. Qui non c’è nemmeno quella. O meglio, è presente, ma è imbarazzante. Superman viene liberato con una facilità allucinante e la pioggia alla kryptonite è banale oltre che ridicola; mi chiedo come si possano scrivere altri quattro numeri dopo di questo, praticamente è come essere già al finale e rallentare senza motivo. E capisco che Miller non sia più quello di una volta, ma da Azzarello simili stupidaggini proprio non me le aspettavo (coff coff… il film di The Killing Joke… coff coff). E i disegni di Kubert, stavolta, non sono sufficienti a salvare con il loro slancio visivo la poca sostanza presente. L’imitazione di Miller è meno evidente e il tratto è ormai consolidato, fatto proprio, ma l’impostazione delle scene è piatta e senza particolari intuizioni. Non che quest’ultime siano per forza necessarie per creare un buon fumetto, ma Kubert ci ha abituato a ben altro e per questo il suo talento risulta sprecato. E altrettanto sprecato risulta il mini-comic su Lara, che non riesco a definire in altro modo se non come un’autentica presa in giro. Perché non è possibile circondarsi dei migliori artisti in circolazione “solo” per le variant cover (tra l’altro di pregevole fattura) e non per quella che doveva costituire la novità della miniserie, un tie-in diverso dal solito e che avrebbe dovuto approfondire un universo ormai diventato storia del fumetto americano. Quella di Lara è solo una parentesi, di piccolo spessore e disegnata in maniera pessima da Miller, che si limita a riciclare il suo peggio già visto in DK2 e Sacro terrore. L’approssimazione e la svogliatezza con cui il quinto numero di DKIII è stato realizzato, nonostante i ritardi continui e i continui investimenti da parte della DC, si notano, a mio parere, in tre dettagli: 1) nel mini-comic precedente Batgirl #1, Miller ritraeva Aquaman con i capelli e barba neri, qui invece li ha biondi; 2) parecchie cose sono riprese dai capitoli precedenti in un copia-e-incolla vergognoso (la frase sui soldi e sulla kryptonite viene dal finale di TDKR, mentre la folla in rivolta guidata da Batman da DK2); 3) Wonder Woman passa dal non voler aiutare Superman o Batman al lamentarsi dell’isolazionismo in cui la sua isola permane senza una ragione apparente. In definitiva, quella che ho provato è stata amarezza più che delusione, un fastidio dovuto al fatto che determinate persone considerate artisti vengano pagate per offrire poi un prodotto talmente commerciale ma nel senso negativo del termine che dà l’impressione che a metà strada, allo snodo centrale, abbiano terminato le idee utili e siano andati avanti comunque. Già la scorsa volta, infine, avevo notato che il fumetto pareva essere una parte di un’iniziativa unica comprendente Batman v Superman, quasi dovessero essere uno la scia dell’altro e potessero accontentare sia gli appassionati di cinema che di fumetto; ebbene, con la copertina del quinto numero (che tra l’altro non c’entra nulla con la trama) ne abbiamo avuto la conferma. A voi il giudizio finale, io mi limito a dire questo: siamo tutti consapevoli che Miller non ci ridarà mai un secondo Ritorno del Cavaliere Oscuro, ma questo non significa potersi sdraiare sugli allori. Questa serie deve ricominciare a focalizzarsi sull’azione pura e tornare a vivere di vita propria o il minimo entusiasmo iniziale finirà per affossarla definitivamente. L’articolo di oggi finisce qui, ci vediamo al prossimo numero!

BAT-ANGOLO: Cavaliere Oscuro III: Razza Suprema, #4

A Lorenzo, che “anche se i numeri sono in ritardo va bene lo stesso”

[ATTENZIONE: QUESTO ARTICOLO CONTIENE SPOILER]

Signore e signori, bentornati al Bat-Angolo, l’antro della letteratura disegnata! Oggi parliamo del quarto numero de Il cavaliere oscuro III: Razza suprema, miniserie di 9 numeri scritta da Frank Miller e Brian Azzarello con Andy Kubert ai disegni e Klaus Janson alle chine. I ritardi si accumulano, ma la distribuzione italiana è quasi alla pari con quella americana (il sesto numero dovrebbe uscire ad ottobre). Sono inoltre curioso di mettere le mani su The Dark Knight Returns: The Last Crusade, one-shot prequel de Il ritorno del Cavaliere Oscuro realizzato dallo stesso team creativo di questo terzo capitolo: mi sembra ovviamente contestualizzato nell’operazione nostalgia di Miller e soci, però molti ne parlano bene. Ma lasciamo perdere questi revival e cominciamo!

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Si riparte con un vero colpo di scena: il professor Palmer, alias Atomo, non è morto, ma si sta rimpicciolendo drasticamente, fino a livelli sub-atomici. Torniamo poi a Superman alle prese con la figlia Lara, schierata contro di lui: ella, oltre all’odio verso gli umani, essere inferiori che per lei valgono come formiche, e all’orgoglio razziale, porta nel cuore un po’ di rancore verso il padre, reo di non averla cresciuta come avrebbe dovuto, e lo sprona dunque a fare una scelta. Ma l’Uomo del domani, per quanto divenuto freddo e distante col tempo verso la razza che lo ha cresciuto, è ancora un puro di cuore e decide di non combattere, di non schierarsi per non sentirsi superiori agli umani né dover fronteggiare l’unica aliena con cui non vorrebbe combattere. Bruce e Kelly assistono impotenti a Lara che picchia furiosamente il proprio genitore fino alla Fortezza della Solitudine, dove Quar, per vendicarsi di colui che ha tenuto Kandor e i suoi abitanti nascosti al mondo per anni, lo rinchiude in un bozzolo di materia oscura e distrugge l’intera Fortezza. Subito dopo ordina a Gotham City di consegnare suo “figlio” Batman entro 36 ore o subirà lo stesso destino di Mosca. Mentre il presidente degli Stati Uniti (che ha le sembianze di Obama) dichiara la resa dell’umanità, Wonder Woman pensa tra sé e sé: non sa che decisione prendere e perciò si manterrà nascosta a Themyscira senza aiutare Bruce. In meno di dodici ore Gotham va nel panico e la folla inferocita si precipita al commissariato per chiedere la testa di Batman. Quest’ultimo intanto manda Kelly in avanscoperta con una pillola e un “regalo di laurea” (che grazie al minicomic delle pagine precedenti capiamo essere il nuovo costume da Batgirl). Egli spera che quello che rimane della Justice League possa fare qualcosa, ma forse si sbaglia: anche Flash, pronto a battersi come non mai, viene sconfitto da un kryptoniano che gli spezza una gamba in corsa. Il commissario Yindel, nel frattempo, osserva il triste scenario che ha davanti parlando ad un registratore: delusa dal comportamento dei cittadini che aveva giurato di proteggere, ora mutati in “formiche rosse e velenose” pronte a scannarsi tra loro, si crede spacciata, ma mentre sta per bersi un sorso, una mano le strappa la bottiglia di mano e la lancia nel vuoto. Si tratta di Batman, che la esorta ad agire e a non “voltarsi dall’altra parte“. L’albo termina tornando sul dottor Palmer, che ha un’illuminazione improvvisa e si rende conto che forse può aggiustare le cose…

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Il quarto tie-in si intitola Il cavaliere oscuro presenta: Batgirl #1 ed è scritto e disegnato da Frank Miller. In esso Batgirl corre al molo a chiamare Aquaman mentre viene ostacolata da dei rivoltosi; fra sé e sé pensa che Batman ha ragione a considerare il mondo “non come dovrebbe essere” e malvagi i suoi abitanti, ma non ha la spietatezza necessaria ad uccidersi, mostrandosi degna del ruolo di Batgirl e fedele agli ideali che mossero il suo mentore più di vent’anni fa.

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Per chi se lo stesse chiedendo sin dall’inizio: no, non ho sbagliato a scrivere, il numero è davvero 9. Ebbene sì, mentre negli USA stanno aspettando l’arrivo del sesto albo (che uscirà, in ritardo, il 19 ottobre) la DC annuncia tramite IGN che DKIII avrà un capitolo supplementare, che nella collector edition brossurata verrà raccolto assieme a The Dark Knight Returns: The Last Crusade. Una decisione che comporta un grande spreco di materiale negli Stati Uniti, se si tiene conto che il design delle copertine dei volumi brossurati e il cofanetto per raccoglierli erano già stati definiti da tempo e ora andranno rifatti da capo. Il motivo secondo me è questo: la DC, in preda ad una certa confusione ai vertici, sta cercando di sfruttare al meglio nei fumetti quelle tematiche che non erano state approfondite abbastanza nel film Batman v Superman e pertanto ha deciso di allungare un brodo già annacquato dall’autocelebrazione di Miller. Tutto ciò, assieme alle promesse e ai ritardi, andrà ad influire negativamente sulla miniserie, anche se i più affezionati continueranno a comprarla pur di non ammettere l’evidenza. Si parla già di un “epico finale”, viste le vicende mostrate finora. Il punto è: riuscirà Frank l’impavido a tirare avanti una miniserie per un altro anno? E, soprattutto, riuscirà a concluderla stavolta? Tornando invece sull’albo in sé, devo dire che stavolta ci siamo. Dopo un capitolo praticamente filler dove l’interesse del lettore era attratto dalla distruzione e dal cliffhanger finale, gli eventi tornano a farla da padrone: succedono molte cose importanti e l’azione si fa sempre più incalzante e avvincente. Spero che gli autori abbiano già capito di dover puntare su quella per rialzare l’asticella della qualità e tenere alta l’attenzione. E mi fa un po’ spiacere dirlo per una serie come questa, che fa parte di un universo partito sotto il segno della satira politica e della decostruzione del mito supereroistico. Questa volta il minicomic non è brutto come il precedente (pur facendo leva sullo stile di disegno che tanto aveva caratterizzato DK2), ma è assolutamente inutile. Mi ha ricordato molto Palla di lardo e Bamboccetto, un racconto di Sin City su due scagnozzi di bassa leva che si distinguono per l’improbabile parlata forbita. Ma il paragone è peggiorativo: in Sin City il racconto era contestualizzato e approfondiva due personaggi secondari molto caratteristici che sapevano colpire, qui invece il monologo interiore di Batgirl non porta a niente (sappiamo già come la pensa Miller sulla massa e il fumetto l’ha già fatto vedere, dunque perché ripetersi?) se non ad un non troppo stuzzicante cameo di Aquaman, che nei precedenti capitoli della trilogia non si era ancora visto. Avrei preferito un’alternanza con altri autori, ma Miller sembra voler fare tutto da solo per poter dire comunque la propria in quest’universo che ha creato e che difende a spada tratta. Ed è un difetto grave perché va a gravare su quella che doveva essere la novità portante della miniserie; vedremo se in futuro si alterneranno altri disegnatori o il nostro rimarrà sulle sue. L’articolo di oggi finisce qui, ci vediamo al prossimo numero!