ANALISI #6: Joker

Quattro passi (di danza) verso il delirio: di Joker e altri frustrati

#2

Bene, dopo aver lasciato passare qualche tempo e aver assorbito varie opinioni, anche le più contrastanti, questo è ciò che ho elaborato su Joker, il film del 2019 di Todd Phillips. Sarà un luuungo sproloquio, pieno di premesse, esempi e parentesi, in cui voglio andare per punti in modo da toccare tutto gli argomenti possibili, riassumibili per me in alcune domande che mi sono fatto prima di entrare in sala e che ho sentito e sentiremo nei prossimi giorni. Magari senza dire nulla di nuovo o brillante, ma perlomeno provando a dare un contributo.

  1. Joker è davvero un capolavoro come molti dicono?

 

02

Risposta: non lo so, personalmente non credo, magari dandogli il tempo di crescere… ma importa davvero, poi? Un premio o un titolo in più fanno davvero la differenza nella scala della meritocrazia? A mio avviso no e un Leone d’Oro può, al massimo, conferire più prestigio, non più autorità. Anche perché con 50 milioni di dollari a disposizione hai sicuramente dei limiti nella realizzazione di un capolavoro, che riesci a rifiutare solo se fin dall’inizio ti sei imposto un preciso obiettivo. E quello di Todd Phillips e del co-sceneggiatore Scott Silver (il quale aveva già tratteggiato storie di sobborghi e di affermazione come 8 Mile e The Fighter) non era certo quello di realizzare un capolavoro, bensì un film fatto come si deve, al massimo delle potenzialità offerte da budget e collaboratori, oltre a quello di crederci fino in fondo. Ed è questo ad aver reso Joker un film non solo fatto come si deve, ma eccellente e genuino; e qualora non fosse davvero un capolavoro, ha tutti gli elementi che possono giustificare tali apprezzamenti. Non vengono affatto solo dal nome che porta, sul quale tornerò nel punto successivo. Si tratta invece della profondità della storia a sé stante e dei mezzi usati per esprimerla, tra la colonna sonora dilaniante di X e la fotografia circense di Y. Il risultato è un film che registicamente si contiene, ma per mettere in gioco campi lunghi e medi per poi restringersi su di lui, Arthur Fleck, per farci soffrire con lui. Forse la seconda parte rallenta un poco dopo le continue vicissitudini viste nel primo tempo e certi legami vengono abbozzati come parte della mente sfocata del protagonista, ma si tratta di due gocce fuori posto in un mare di qualità, in cui spicca sicuramente la performance di Joaquin Phoenix, superba nell’unire una metodica preparazione fisica e la sofferenza mentale del personaggio senza risultare manieristico, anzi, in grado di far provare dolore anche solo a guardarlo. Si potrebbe definire il tratto più pop-rock del film, volendo, dato che l’elemento musicale e coreutico diventa sempre più fondamentale man mano che le manifestazioni della follia emergono, sostituendosi alla risata patologica che si manifesta nei momenti di maggior disagio.

#7

#17

  1. Quanto è fedele al materiale di partenza?

 

Fin dal primo teaser è tornata prepotentemente la questione delle fedeltà in un adattamento, ancora più annosa se si parla di fumetti americani di supereroi e addirittura “pericolosa” quando si parla di Joker, vedere per credere. Ogni volta che viene riscritto o riproposto al cinema file di estimatori o detrattori partono alla carica, chi difendendo la libertà creativa totale e chi incolpando lo scrittore o l’attore di turno di non aver compreso il personaggio. Cosa avvenuta anche qui, perché l’impressione generale era che Phoenix stesse imitando il compianto Heath Ledger e che dai fotogrammi mostrati e dalle dichiarazioni di Phillips (in realtà mal riportate, come traspare da questo articolo: https://cinema.everyeye.it/notizie/todd-philips-smentisce-non-essersi-ispirato-fumetto-joker-399999.html?fbclid=IwAR0mlD0uq6TkI-KNJJdWF7ss-bCc2Et46VLtZML6CA6R9KTJVOELugqnj64) e dei produttori in ambito cinecomic le intenzioni fossero ambigue o poco pertinenti con la storia del Pagliaccio Principe del Crimine. A entrambe le categorie vorrei dire che a tutto c’è un limite e che farsi piacere o dis-piacere un film a priori (andando oltre il giudicare il materiale promozionale e la strategia comunicativa, operazione invece più che legittima) è da sciocchi. Ovviamente sono solo le mie opinioni, ma tenterò di argomentare. E comincerò con l’essere il più onesto possibile dicendo che, da purista quale sono, sono cascato anch’io nei giudizi a priori, partendo prima scettico, poi stemperando nel dubbio e infine godendomi il film senza pregiudizi, come d’altronde ho sempre fatto anche quando partivo più che entusiasta e bendisposto. Sono uno che apprezza molto rivedere su schermo e ampliato ciò che ha letto, ma non al punto da castrare la libertà di voler rimaneggiare il materiale originale, altrimenti tra i miei film preferiti non ci sarebbe, per fare un banale esempio, Blade Runner, ma nemmeno Quei bravi ragazzi, a ben vedere.

Già la scelta di trasporre X piuttosto che Y è una scelta e come tale, anche se sciocca o fatta per puro denaro, va rispettata, andando poi a criticare soltanto il risultato finale. E in tale critica il confronto libro-film o fumetto-film si può anche fare, ma in maniera intelligente, sensata. Come mi piace ripetere, la fedeltà non è un metro qualitativo e se lo diventa significa che il progetto era sbagliato a priori. Se da una parte capisco il diritto di un autore di riplasmare con la sua visione estetica un prodotto che gli interessa e dire la sua sperimentando e giocando con le aspettative, dall’altra capisco anche la paura di vedere ciò che si ama banalizzato, utilizzato come vuoto contenitore o addirittura specchietto per le allodole (per quanto nell’informatizzato 2019 ciò sia ancora possibile) senza alcun rispetto verso il creatore primo. Infatti sarei il primo ad utilizzare le espressioni “ispirato a“, “tratto da” o “liberamente ispirato a” con più cautela e onestà intellettuale, ma purtroppo non dipende da me. In ogni caso, non siamo davanti ad una gara con la carta da lucido, dove vince chi, letteralmente, ricalca meglio: un valido artista che vuol dipingere nature morte non perde tempo a ricopiare un Caravaggio, ma a trovare la sensibilità giusta per una variazione sul tema. Allo stesso modo fanno registi e sceneggiatori, quindi la fedeltà è, la massimo, un valore aggiunto, un arricchimento, specie se fine e sottile. Se invece un film non è fedele, a mio avviso chi “tradisce” deve ricompensare con qualcos’altro, altrimenti non ha senso e rischia di impoverire ciò da cui ha tratto spunto; se poi le differenze risultano addirittura migliori o più sensate di idee che su carta erano mal gestite o non possibili da rendere su schermo, allora tanto di cappello. Inoltre, per affrontare meglio le tematiche, si presuppone che chi vi lavora non agisca per sentito dire, ma conosca ciò a cui mette mano, altrimenti si arriverebbe davvero al caso di Hitman del 2007, dove ad una storia priva di valore sono stati appiccicati il nome di un brand videoludico e i tratti fisici più celebri del protagonista senza alcuna motivazione logica (travisare però, attenzione, è un’altra cosa ancora e pure più complicata).

 

Premettendo questo e che, a mio modesto parere, l’affermazione “il personaggio è talmente libero e indefinito che puoi farne quello che vuoi” è una fesseria pericolosa (vero, Pushback?), bisogna chiedersi, come sarebbe opportuno, chi è il Joker? Quali sono le caratteristiche che lo contraddistinguono da altri folli, che lo rendono unico e dovrebbero essere sempre, quantomeno, tenute in considerazione? Mi tocca aprire una noiosa parentesi storica, che però tornerà utile. Joker nasce, graficamente, nel 1940 partendo dal giullare del jolly nelle carte da gioco e dal viso di Conrad Veidt nel film muto L’uomo che ride del 1928. Da questo, anzi, dal romanzo di Victor Hugo viene velatamente ripreso, anche se mai approfondito per molto tempo, il concetto dell’uomo dal sorriso imposto come uno sfregio, di una risata che nasconde tristezza e oscurità. Per questioni editoriali lo spietato criminale dal ghigno malvagio rimane una bozza e si trasforma in un semplice buffone sopra le righe dai gadget stravaganti, visione portata avanti dalla serie del ’66 con Adam West e oggi mantenuta per i tratti più comici nella caratterizzazione. Ciò che rimane costante sono la pelle pallida, i capelli verdi (prima scuri, poi chiari), l’abbigliamento viola elegante con camicie verdi, arancioni o azzurre e, soprattutto, l’aura di mistero data dalla mancanza di un’origine definita, che sicuramente nella ridicolaggine dei Sixties è semplicemente non necessaria; nel 1951 X e Y prova a dargliene una nella storia L’uomo sotto il Cappuccio Rosso!, da Detective Comics #168, ma non ottiene alcun impatto. Negli anni 70 torna l’assassino sadico degli inizi grazie ai duo Dennis O’Neil-Neal Adams e Steve Englehart-Marshall Rogers, mentre nel 1988 Alan Moore e Brian Bolland riprendono L’uomo sotto il Cappuccio Rosso! per creare l’origine più bella mai scritta con Batman: The Killing Joke, dove si solidifica quella filosofia di fondo presente anche nel Comico di Watchmen che è rimasta radicata nel personaggio per sempre. In breve, tenendo conto di questo e delle molteplici versioni del personaggio (discorso valido anche per Batman come per qualsiasi personaggio del fumetto seriale americano di supereroi), non esiste il Joker definitivo, ma senza dubbio Moore e Bolland hanno realizzato la summa e insieme l’apice di tutte le caratteristiche che possiamo attribuirgli, allargata semmai da Grant Morrison nella graphic novel Arkham Asylum: Una seria casa su un serio suolo e nella sua run tra il 2006 e il 2011 e da davvero pochi altri scrittori; è così da ormai trent’anni e da lì non si può scappare.

E sulla base di tutto questo preambolo rispondo alla domanda iniziale dicendo che per me Joker è molto più che fedele, va oltre. Le sue radici non stanno nel voler rielaborare le origini di uno dei più grandi villain conosciuti, nel “rischio” di realizzare l’ennesimo cinecomic, al contrario, durante la campagna di marketing si è scelto di distogliere l’attenzione da questo e portarla verso la sua frangia più autoriale (se per convincere le giurie ai festival non importa, è pur sempre pubblicità e il lato commerciale di un prodotto). Allo stesso tempo Joker non è un nome incollato con lo sputo, ma una serie di caratteristiche stratificate al cui nocciolo rimane comunque Arthur Fleck, una persona autonoma e indipendente dall’identità che assumerà. Ergo il Joker che vediamo ha un nome e un cognome, lo conosciamo quasi in tutto e viene messo da parte il mistero dell’origine ignota (che in The Killing Joke portava il pubblico ad identificarsi meglio con lui per poi, forse, ripudiarlo), eppure non rinunciamo ad osservarne per due ore moventi e involuzione. Perché? Perché il soggetto parte da altre fonti e ispirazioni, come i film di Scorsese, per incontrare la parabola discendente del criminale, operando un discorso sull’icona Joker come mai era stato fatto prima. Se fosse un Elseworlds, un what if che deraglia dal canone per uno o più dettagli, la premessa di Joker potrebbe essere: “Cosa succederebbe se Gotham City fosse lo specchio delle situazioni sociali delle metropoli, del 1981 come di oggi, e le vicende di un suo normalissimo cittadino della classe meno abbiente si intrecciassero, in maniera verisimile e realistica, con quelle dinamiche che hanno portato lo sconosciuto dei fumetti a diventare il Joker?” È da quel nullatenente che sono partiti Phillips e Silver, dal suo disturbo, dalla sua risata compulsiva, dalla sua situazione economica e familiare e dal contesto che lo ha generato, in tutti i sensi; non si tratta quindi del Joker di un fumetto specifico o della continuity ufficiale, ha detto Phillips (nessuna versione filmica lo è mai stata), e non si porta dietro l’attributo di nemesi di Batman… almeno non apertamente. “Tralasciare” Batman rendendo Arthur protagonista assoluto rientra tra le regole imposte dal contesto realistico, esattamente come nella Dark Knight Trilogy di Christopher Nolan veniva limato il lato più fumettoso del tutto: Arthur non è un Joker, lo diventa assumendone letteralmente i panni e l’appellativo e quindi il percorso è soltanto suo, con tutti i rimandi ai fumetti ad abbellirlo e/o rafforzarlo. Sarebbe inutile dilungarsi a spiegare quali siano e quanto brillantemente vengano usati (cosa che farò nei prossimi giorni), fatto sta che nella Gotham del 1981 qui presentata non c’è spazio per gli eroi, solo per figure umane, antieroiche e prossime alla pazzia, velata o meno. Non sarebbe stato un problema se non ci fossero state, dato che il film ripaga con molto altro, ma Phillips sapeva che potenziale aveva in mano e ha deciso di usarlo per bene.

  1. Gotham è anch’essa un nome appiccicato? Oppure si tratta di un contesto concreto?

Ho citato gli Elseworlds e i what if non a caso. Tra il 4 ottobre del 2017, anno in cui Phillips e Silver scrissero la sceneggiatura, e il 9 maggio 2018, quattro mesi prima dell’inizio delle riprese, uscì la miniserie Batman: Cavaliere bianco, scritta e disegnata da Sean Murphy con colori di Matt Hollingsworth, la quale condivide certi aspetti di Joker, specie le riflessioni sulla cittadinanza di Gotham. Ad ogni modo, fu un progetto di grande successo che diede il via in maniera non ufficiale alla linea editoriale DC Black Label, erede degli Elseworlds ma con l’intento di raccogliere i migliori artisti e sceneggiatori e permettere loro di dar vita a storie mature, fuori continuity, per un pubblico adulto e dai toni forti e disturbanti (d’altro canto una delle cose che fece più scalpore del primo numero di Batman: Dannato, primo titolo ufficiale dell’etichetta, fu il fatto che in una tavola si intravedesse il pene di Batman). Questo avrà sicuramente dato linfa al film in quanto la Warner, vedendo il successo della nuova etichetta, potrebbe aver capito che porre il film su quella stessa linea, magari con progetti simili che in futuro non intaccheranno il canone, non sarebbe stato una cattiva idea. E così è stato, con una Gotham City riletta appositamente.

Se Arthur Fleck si “appropria” di Joker e non il contrario, allo stesso modo sono l’idea di metropoli degradata ad impadronirsi di Gotham in modo che quest’ultima non risulti invasiva e non riporti costantemente alla mente il mondo batmaniano. Il manicomio di Arkham, per esempio, diventa l’ospedale cittadino e viene nominato soltanto due volte, al punto che lo spettatore nemmeno ci fa caso, così come non fa caso all’innominato maggiordomo di Villa Wayne, che è senza dubbio Alfred. L’unico nome importante è Thomas Wayne, magnate molto meno filantropo di come ce lo ricordavamo, ma anche in quel caso e nell’origine di Batman rimasta intatta, si parla di conseguenze, il focus principale è altrove.

 

È infatti e comunque la solita Gotham che conosciamo, torbida, marcia dentro per natura, con un netto distacco tra centro e periferia e una serie di conflitti sociali irrisolti, pronti a generare criminali che si ergono sopra quelli comuni. Ciò non esclude che faccia proprie, appunto, le città dei primi anni ottanta e quindi figlie dei mutamenti sociali dei settanta (qui va detto che il dato temporale è più artistico che concreto, ma probabilmente è una scelta per rendere il più a-temporale possibile anche questa Gotham), semplicemente i pochi elementi ricorrenti del paesaggio urbano ruotano tutti attorno al microverso (mentale) di Arthur piazzati nel macroverso di Gotham, inquadrato con un campo lunghissimo soltanto una volta seguendo la metropolitana che collega due universi separati unicamente dal ceto e dal censo.

Da segnalare che, Thomas Wayne a parte, l’unico illustre cittadino di cui si parla è il conduttore di late show Murray Franklin, il cui spettacolo rassicurante inebetisce persone come Penny Fleck e si mette al servizio del potere che governa la città come il resto dei mass media; tutti gli altri sono semi-sconosciuti comprimari di Arthur, nella sua stessa condizione economica e che gli ruotano attorno. Non solo: se la gestione dei beni e delle risorse è così scellerata, un atto come la rivolta di tanti anonimi pronti a farsi giustizia dietro una maschera (ricorda forse qualche uomo travestito da topo volante?) è inevitabile e una schiera di seguaci indica che potenzialmente ciascuno di quei violenti avrebbe potuto osare quel tanto in più che basta per essere il Joker. Siamo in una situazione simile al consumismo dilagante e alienante di Fight Club, dove è un piano fuori di testa come quello di Tyler Durden a smuovere la situazione. Ciò non rende Joker un’idea astratta e che, condivisa da tutti, rischia di smussare l’unicità di Arthur, semplicemente mostra l’uomo per quello che è in un contesto pari a quello gothamita: un’arancia meccanica, pronta a scattare e distribuire violenza.

11

 

  1. Vi sono riflessioni socio-politiche dovute anche al contesto, il 1981: come sono?

Continuando sulla popolazione di Gotham, non si può non parlare delle insinuazioni socio-politiche, visibili e invisibili a quanto pare, poiché c’è chi le ha trovate fin troppo preponderanti chi banali o addirittura inesistenti. Io ammetto di non averci dato troppo peso, non credo che il film vada in quell’unica direzione, ma siccome è figlio anche di Taxi Driver è evidente che vi siano dei rimandi all’analisi sociale. Come Travis Bickle, infatti, Arthur trova nell’omicidio l’affermazione di sé, i suoi quindici minuti di fama, il fungere da esempio per qualcun altro e un esorcismo che sprigiona i suoi demoni. Con tutte le differenze del caso, però: Travis soffriva di disturbo da stress post-traumatico in quanto veterano del Vietnam, ergo ha presumibilmente già ucciso qualcuno in guerra e la strage avviene solo alla fine, con un probabile ritorno al punto di partenza. Arthur è invece immacolato, non ha mai fatto del male a nessuno e non riesce comunque ad emergere come individuo sia per via della malattia e della povertà in cui si trova, in quanto i lavori che può fare sono decisamente meno redditizi del guidare un taxi. Non sarebbe solitario come Travis, ma la compagnia di una madre del genere crea per lui solo un divario tra il piccolo falso paradiso casalingo e l’inferno del mondo esterno che non lo considera minimamente, per cui malessere e indebolimento fisico non possono che aggravarsi e qui il collegamento, assieme all’ammirazione per un commediante già affermato, va allo svitato Rupert Pupkin di Re per una notte.

Un unico crimine, compiuto per puro istinto, lo rende qualcuno per quelle stesse persone che, fino ad un giorno prima, lo picchiavano e lo denigravano. A patto però che resti anonimo: dapprima infatti le conseguenze sono puramente personali, un senso di ritrovata intraprendenza e un pretesto per cominciare a trasformarsi nell’artista che egli vorrebbe essere. Il triplice assassinio è per lui solo l’inizio di una situazione che peggiorerà dal momento in cui smette di assumere farmaci fino al one bad day in cui tutto il mondo gli crolla addosso e all’attimo in cui deciderà, non per fama e non per alimentare il suo mito, di liberarsi del suo passato e reinventare sé stesso in una figura nuova che, stavolta, dia libero spazio ai suoi pensieri, istinti e desideri. In questo richiama sia Travis che la parabola di Pupkin ed effettivamente Arhur, anzi, Joker sarà re per una notte, la più importante della storia di Gotham sia in quel contesto che in ogni fumetto. Travis, tuttavia, riusciva a creare un minimo di empatia e partecipazione, mentre so che con Arthur per qualcuno non c’è stato, evidentemente perché, per quanto sofferente e triste, è fin troppo disturbato/disturbante per noi, come del resto dovrebbe essere il Joker, il cui superpotere, nei fumetti, è ricreare la propria psiche e i propri disturbi per eludere anche i più esperti. Riusciamo a capire Arthur, ma non ad avvicinarci a lui tanto quanto riusciremmo a fare con Travis, in quanto il mostro che vive dentro di lui lo ha segnato da sempre ed ogni tentativo di salvare la sua figura è inutile.

03

09

Nel momento in cui scopre le proprie origini, apprende che il suo idolo (una sorta di riproposizione, assieme a Wayne, del politico di Taxi Driver) ha riso di lui invece che fargli da padre-mentore distruggendo il suo sogno di diventare uno stand-up comedian dopo gli ultimi tentativi di restare un clown nei reparti di oncologia infantile (in fondo l’unico modo in cui veramente riusciva a portare un po’ di felicità a chi ne aveva bisogno) e si rende conto che il suo amore era una costruzione mentale (come molti altri dettagli, data la sua prospettiva da narratore inaffidabile spesso ostica), egli scorge il non-senso della vita e prende la decisione di crearne uno suicidandosi con un gran finale in diretta, salvo poi cavalcare l’onda della rivolta dei clown da lui scatenata e agire senza modus operandi liberandosi dell’ultimo appiglio al proprio passato, ossia Franklin, il quale non è per nulla in grado di riportarlo dalla parte della ragione. Ad Arthur non importava di cosa significasse per gli altri il suo operato e nulla gli importa ora: il consenso delle masse e la sua celebrazione da messia per degli atti orribili sono la più alta forma di compensazione per il proprio ego, in un sistema che aveva ignorato le cause che avrebbero portato il caos e che in quel momento non può far altro che assistere impotente alle conseguenze.

Ipocriti i benestanti che avevano ignorato il problema o l’hanno causato promettendo di risolverlo per tranquillizzare i potenziali elettori, e ipocriti i ceti inferiori, pronti a scannarsi tra loro eleggendo come loro eroe un giustiziere qualsiasi che ha semplicemente avuto il coraggio, per via di un male che da sempre lo possedeva e per cui lo avevano deriso, di compiere gesti estremi che nessuno si sarebbe mai sognato di fare. “Uno Stato non è migliore di chi lo governa“, scriveva 50 anni fa Philip K. Dick ne La svastica sul sole e qui si ripete il concetto facendo leva sulla responsabilità di tutti nell’occasione sprecata di costruire un mondo migliore: l’ambiente ci forma e il prodotto di un ambiente corrotto da cima a fondo non può che essere la risposta generata e simboleggiata da Joker e proprio perché ciascuno è messo davanti a delle scelte nella vita la responsabilità di tali avvenimenti è sempre di tanti singoli, da Arthur a Franklin, da Thomas al delinquente che lo uccide. Considerazioni già affrontate in passato, per esempio dal Il ritorno del Cavaliere Oscuro nel 1986 assieme a Watchmen, ma qui rielaborate mettendo al centro questa figura mitica come un cattivo che è fin da The Killing Joke millanta di essere solo il figlio di un mondo crudele e non del proprio agire per rafforzare il concetto. Non proprio banale, specie se teniamo conto che ogni opera, al di là dell’ambientazione, riflette i propri tempi e Joker questo lo fa bene, come ha sottolineato Michael Moore invitando ad andare a vederlo (https://cinema.everyeye.it/notizie/michael-moore-joker-tood-phillips-capolavoro-dovremmo-guardare-tutti-403715.html), pur non vedendoci una  responsabilità individuale che invece c’è e deve esserci (https://cinema.everyeye.it/articoli/speciale-parliamo-finale-joker-todd-phillips-verita-fantasia-45618.html): seguite lo stesso il consiglio!

  1. Si tratta di una origin story originale sul/grazie al personaggio o Phillips si dimostra troppo debitore di Scorsese?

10

Oltre al già citato Taxi Driver, Phillips ha dichiarato di aver preso integrato le storie su Joker degli anni settanta con altri film scorsesiani e della Nuova Hollywood appartenenti a quel decennio e alle atmosfere successive, quindi Re per una notte e, in parte, Fuori orario, ma anche Qualcuno volò sul nido del cuculo e racconti metropolitani come Il braccio violento della legge, Arancia meccanica, Quel pomeriggio di un giorno da cani, Cane di paglia, Serpico e vari altri. Questo allora rende il film, de facto, non del tutto originale nel senso di innovativo e completamente ideato da Phillips, ma sinceramente, sebbene i parallelismi con le prime due pellicole di Scorsese citate siano molto forti, ho trovato questo meccanismo per nulla tendente alla copia sbiadita o al plagio, bensì, come altri hanno già fatto notare, un felice ritorno al passato perché necessario: così come il contesto degli anni settanta ha generato i film della Nuova Hollywood, così il desolante panorama odierno ha richiesto un uso del loro stile in campo cinecomic per imprimere la forza a rendere la storia di Artur tutt’uno col mondo in cui vive, una Gotham del 1981, di passaggio tra un decennio pieno di problemi per gli USA ad un altro altrettanto problematico, potenzialmente ricco e pieno di ricordi felici ma soffocato dalle luci soffuse al neon, dal merchandise, dall’inebetimento delle masse, da Reagan, dagli yuppie figli di papà e dai magnati rappresentati in Wall Street di Oliver Stone e imitatori di Donald Trump (che guarda caso è l’attuale Presidente degli Stati Uniti). Un procedimento simile è già stato utilizzato proprio da Batman: Cavaliere bianco, che raccoglieva i pezzi di Burton (il Joker si chiama Jack Napier) e del suo erede diretto, l’universo animato di Bruce Timm e Paul Dini, per contaminarlo con l’estetica del fumetto e dei film di Christopher Nolan (lo si vede molto bene nelle macchine, veri gioielli della meccanica nelle matite di Murphy). E anche allora ci fu chi parlò di “già visto” e “prevedibile“. Il che era pure vero! Ma la serie ottenne comunque un buon responso critico oltre che di pubblico, tanto che or ora Murphy sta pubblicando il seguito e pensando ad un terzo volume. Questo perché le variazioni dovute al mix personalissimo delle citazioni e al tocco molto giovane portano il soggetto in una direzione nuova, mai intrapresa prima, se ci si pensa, e mettendo la parola fine, per quanto mi riguarda, al binomio Batman-Joker.

Lo stesso accade qui, unendo Cavaliere bianco a Il ritorno del Cavaliere Oscuro (rendendo però Joker mattatore). Nel primo Joker si erge a paladino delle classi disagiate e smaschera l’ipocrisia di Batman e del suo credo per sostituirsi a lui in maniera completamente legale diventando il nuovo volto politico di Gotham. Il secondo presentava un elemento politico, seppur incentrato sulle reazioni della cittadinanza al ritorno di  Batman, e la presentazione di Joker come un uomo che non può vivere senza Batman e, al contempo, un fenomeno da baraccone da esporre nei talk show. Tutto questo viene recuperato e al contempo Phillips e Silver se ne distanziano, sia perché, appunto, il film passa da Il ritorno del Cavaliere Oscuro e L’arrivo del Clown Oscuro, per così dire, sia perché ad Arthur non importa del movimento da lui smosso se non nel finale e per pura gratificazione egocentrica. Il senso di giustizia e di voler far andare le cose come dovrebbero rimane nelle mani degli spettatori, incapaci di entrare dentro lo schermo e dare ad Arthur l’unica cosa che sarebbe servita a evitare tutto questo e permettergli di guarire e ricominciare: non i soldi, non un lavoro, non il prestigio, soltanto qualcuno capace di amarlo come un amico, un fratello, un padre, qualcuno che invece di passare dal distruggerlo all’acclamarlo per dare sfogo alle proprie frustrazioni fosse stato in grado di sedersi accanto a lui, capire la sofferenza dietro quella risata acuta e soffocata per abbracciarlo e far sparire il male dentro di lui. Ma come detto prima siamo a Gotham e tutto questo non è possibile. Come forse potrebbe non essere possibile il colpo di genio messo in coda, vale a dire il riferimento alla nascita di Batman. E non mi riferisco soltanto al fatto che certe cose potrebbero essere frutto della mente malata di Arthur, altrimenti si potrebbero aprire varianti e interpretazioni fino a farle apparire come dietrologie forzate. Mi riferisco invece all’azione vera e propria: riprendendo l’”Io ho fatto te. Tu facesti me, prima” di burtoniana memoria con Thomas Wayne al posto di Bruce, Joker si ricollega anche al mito classico: i due sarebbero il frutto della medesima città, ma di diversi contesti sociali, qui la vicinanza è invece tangibile, in quanto Thomas non ha fatto nulla per impedire l’ascesa di, anzi, dei Joker e di conseguenza la sua morte è inevitabile, ma quanto è certo che in quel contesto malvagio il piccolo Bruce abbia la forza di rialzarsi, giurare vendetta al Pagliaccio e intraprendere la crociata da incappucciato? Siamo sicuri che Bruce, che al posto di Joker ha perso tutto, capisca come veicolare quell’insopportabile sofferenza? Non lo sappiamo ed è qui, oltre all’emblematica scena finale che “annulla” la barzelletta mortale facendola diventare un’altra morte concreta e si lancia in un The End classicheggiante quanto stridente con il freddo corridoio imbrattato di sangue, che risiede il rispetto per il materiale di partenza in ogni modo per poter esprimere qualcosa sì di non superlativo, ma sentito, forte e pure condivisibile, come la storia di Arthur.

 

12

E spendiamo ancora due parole su di lui. Perché, appunto, questa origin story non sarà la più cervellotica, impegnata e complessa di tutte, ma arriva diretta e secca come un gancio destro, fa male e raggiunge gli obiettivi prefissati, compiendo inoltre, come Cavaliere bianco, un’altra summa dopo quella di The Killing Joke, vale a dire quella di tutte le varianti più importanti del personaggio viste fino ad oggi, in ogni ambito, in ogni media. Da Ledger a Romero, dai fumetti ai cartoni animati, questo è il riassunto che Phillips e Silver hanno raccolto sui dati per loro più adatti da affibbiare a Fleck e ad essere inseriti in una trama in bilico tra Taxi Driver e Re per una notte, tra introspezione e tragicommedia; non sono un banale plus, ma come nei film di Burton fanno da valore aggiunto potenziando la storia, la valorizzano e da essa vengono valorizzati. Il personaggio Arthur ci guadagna ad indossare trucco e vesti del Joker, così come il personaggio originale e la ricca mitologia di Gotham City nell’accoglierlo tra le loro fila. Non era stato mai fatto prima un discorso simile sull’icona e il “titolo” di Joker e probabilmente bisognerà aspettare ancora molto per vederne un altro. Nel frattempo abbiamo Arthur Fleck, un autentico nessuno che emergerà solo grazie alla sua malattia, incontinenza emotiva o effetto pseudobulbare (PBA), una variante della cosiddetta emotional lability ancora senza cura e che può essere una condizione secondarie di tremendi mali quali sclerosi multipla, SLA, Parkinson, ictus, disturbo da deficit di attenzione/iperattività e, come parrebbe nel caso di Arthur, depressione o trauma cranico. Questo il suo attributo da uomo che ride e legame con Joker prima della trasformazione assieme al nome. Arthur è un nome comune, mentre il cognome invece è decisamente interessante: fleck è infatti un termine esistente e indicato sui dizionari inglesi come little spot, ossia una traduzione letterale di macchietta, altrimenti mantenuto inalterato in lingua anglosassone. Nome omen, dunque, come Pupkin ricordava pumpkin, zucca. Di più, un cognome attributo, che Arthur rifiuta in quanto vuole cambiare e non essere una personalità piatta fino alla fine della sua esistenza e completerà il percorso rinunciando al proprio nome per sceglierne uno più eloquente e in realtà attributo affibbiatogli da Franklin per prenderlo in giro, anche se pure su questo incombe il velo dell’incertezza. E quindi joker, come la carta da gioco, ma anche come barzellettiere, sempre in senso dispregiativo. Tutto questo è davvero significativo in quanto Arthur sceglie volontariamente di adottare un nome canzonatorio, forse perché non crede fino in fondo al materiale che vuole portare in scena, suicidio compreso o forse perché si ritiene in grado di raccontare la vera grande barzelletta che accomuna lui agli altri: la vita. Ma egli, come il Joker dei fumetti, è un individuo e come tale unico nel suo genere, solo le sue condizioni mentali hanno permesso che venisse alla luce tutto il suo lato nascosto e cattivo e non tutti sono necessariamente come lui: glielo diceva Batman verso il finale di The Killing Joke e glielo ripete, con intento diverso, Franklin, i rappresentanti/difensori del sistema che combatte, che usa come scusante per ciò che è diventato e di cui rifiuta gli pseudo-valori che hanno comportato il suo declino, dando infine a Batman una battuta per riflettere sul loro legame perpetuo e al conduttore ciò che si merita.

Un racconto triste e struggente che riassumerei non solo con Smile di Charlie Chaplin nella versione di Jimmy Durante o con Laughing dei The Guess Who, che accompagnava il breve test footage di Phoenix in costume, ma anche con un’altra canzone che mi è venuta in mente appena terminata la visione: I Started a Joke dei Bee Gees, che tra l’altro avevamo già ascoltato nella cover ConfidentialMX con voce di Becky Hanson nel trailer di Suicide Squad presentato al Comic-Con di San Diego del 2015 (qui la canzone originale: https://www.youtube.com/watch?v=4ZWKR2zJESk).

45

I started a joke which started the whole world crying

But I didn’t see that the joke was on me, oh no

I started to cry which started the whole world laughing

Oh if I’d only seen that the joke was on me

Traduzione: Ho iniziato una barzelletta, cosa che ha iniziato a far piangere il mondo intero / Ma non mi sono accorto che la barzelletta era su di me, oh no / Ho iniziato a piangere, cosa che ha iniziato a far ridere il mondo intero / Oh se solo mi fossi accorto che la barzelletta era su di me.

La prima strofa (o prime due strofe distiche, non intermezzate da ritornelli nella semplicità della melodia) mostrano uno scambio di azioni e reazioni. Il protagonista del brano racconta una battuta sciocca o triste per cui il suo pubblico piange (di delusione?) invece di ridere: qualunque cosa abbia detto scherzosamente si è ritorta contro di lui e quindi the joke’s on me, vale a dire mi son fatto ridere dietro, ci ho fatto la figura del babbeo; lo stesso dopo che il nostro ci è rimasto male, poiché la goffaggine del momento causa l’ilarità generale, evitabile se si fosse accorto prima di poter fare una figura imbarazzante. Altrettanto legittima, seppur più articolata, l’interpretazione letterale del modo di dire: la battuta riguarda personalmente il suddetto protagonista, è una parte della sua vita e il suo audience si mette a singhiozzare per compassione (o per disapprovare il tema scelto?) senza riuscire a scherzarci sopra, mentre quando egli, accortosi dell’assurdità della situazione o che la battuta lo riguardava da vicino, capisce che non c’era nulla da ridere concludendo con un pianto liberatorio per seguire quello del pubblico, che invece lo rigetta iniziando sì a ridere, ma di lui. Il sale negli occhi altrui è collirio per i nostri, si dice, e dato che il meccanismo comico nasce da situazioni di danno o sconvenienti la gente è spesso portata a ridere delle disgrazie del prossimo, che la prenda con ironia o meno; in questo caso il protagonista è addirittura alienato, ogni cosa che fa, anzi, inizia a fare, ottiene l’effetto posto. Perciò, che si scelga una o l’altra versione, resta il fatto che si rovini da solo, consapevole o meno del rischio all’inizio.

I looked at the skies running my hands over my eyes

And I fell out of bed hurting my head from things that I said

‘Till I finally died which started the whole world living

Oh if I’d only seen that the joke was on me

Traduzione: Ho guardato verso il cielo passandomi le mani sgli occhi / E sono caduto dal letto ferendomi la testa per le cose che dicevo / Finché alla fine sono morto, cosa che ha iniziato a far vivere il mondo intero / Oh se solo mi fossi accorto che la barzelletta era su di me

Quest’ultima strofa, contenente il bridge e ripetuta due volte, conclude malinconicamente il pezzo. Il protagonista, disperato e isolato per il suo errore, osserva stralunato il mondo attorno a sé, quasi fosse in un sogno e non ritenesse possibile ciò che gli sta capitando, per poi, appunto, tornare alla triste realtà. Dal cielo nessun segnale miracoloso, il risveglio crea solo altro dolore perché porta con sé i pensieri negativi, ripensamenti su ciò che ha fatto e su cosa avrebbe dovuto fare che lo scuotono nel profondo e ampliano la sua tristezza. La voce principale, Robin Gibb, è infatti forte e squillante in questo punto, come se volesse imitare il protagonista che urla a vuoto la propria miseria. Da paradossale la situazione si è fatta opprimente e l’unico atto compiuto, non frequentativo, che egli può compiere è morire, azione a cui il mondo intero risponde cominciando a vivere: qualunque fosse la battuta o il gesto che gli ha procurato quei quindici minuti di notorietà, dopo la breve interruzione la vita torna a scorrere nella propria routine, senza preoccuparsi ovviamente se quell’individuo, così piccolo e insignificante rispetto alla comunità, contasse qualcosa.

Molti l’hanno interpretata in modo meno drastico, addirittura come un cammino spirituale alla ricerca della verità e dell’annullamento del proprio ego, ma poco importa qui, poiché è di Arthur/Joker che parliamo: non riesce ad attrarre simpatie, né viene preso sul serio, ergo il tessuto urbano, dedito solo a non sfaldarsi, lo ignora e lo opprime innescando i meccanismi che lo faranno impazzire completamente; guarda un’ultima volta a sogni e aspirazioni per poi accorgersi che ogni cosa da lui letteralmente sognata era mera illusione se non un incubo; alla fine muore da Arthur per rinascere Joker. Cambia però il finale della sua canzone. Vorrebbe all’inizio morire in modo plateale per far perdurare gli effetti e dare un senso alla propria esistenza, ma il suo animo ballerino opta per l’istinto caotico e bestiale prima e per l’accogliere una sorprendente stima da parte dei cittadini rivoltosi del suo stesso ceto; inizia solo alla fine a raccontare una barzelletta, la più importante, quella sulla sua condizione di reietto (e in The Killing Joke di altra faccia della medaglia per Batman), ma come in precedenza cambia idea e opta per l’ennesima morte, visto che altri, quando era in condizioni critiche, avrebbero quasi fato lo stesso.

  1. Alla fine, Joker è un cinecomic?

Qui rispondo sì… e no. Nel senso che in America comic indica, per forza di cose, tutti fumetti, mentre in Italia associamo subito il termine al fumetto supereroistico americano, così come manga ai fumetti giapponesi. Quindi sì, tecnicamente Joker sarebbe un cinecomic, ma la semantica continua ad andare in direzione dei film del Marvel Cinematic Universe e al modo in cui sono prodotti, per cui non ha molto senso usare il termine per lavori come questo o, per fare un altro esempio lontano Popeye di Altman. Potremmo dire allora cinefumetti, così come negli USA si parla di comic book movie, quello forse aiuterebbe. Tuttavia mi preme dire che Joker non è per me una vittoria del genere supereroistico, in quanto rappresenta un unicum proveniente da un mondo seriale a cui si ispira prendendone subito le distanze: è ovvio dunque che non si tratta di un cinecomic nella comune accezione del termine, come potrebbe esserlo? E in ogni caso, forse, è ora di ricordarci che quello del cinecomic è solo una sorta di sottogenere come tanti altri e che parlare di semplici film gioverebbe di più alle discussioni. Capisco che, in effetti, si sia contenti che le vittorie ai festival di un film tratto da un’arte ancora snobbata come quella dei fumetti possa fare piacere (a me fa piacere), ma nel momento in cui il lento dramma e l’introspezione la fanno da padrone e prendono il sopravvento sull’elemento più fumettoso del personaggio Joker, allora, vale la pena difendere la categoria fino allo stremo? O meglio forse essere contenti e basta come spiega benissimo questo pezzo di #CineFacts (https://www.cinefacts.it/cinefacts-articolo-448/joker-il-cinecomic-che-non-lo-e-e-che-forse-ci-aiutera-a-smetterla-con-le-etichette.html?fbclid=IwAR1xXipbJ6sH68rRN1rMI_OEnhnt9EcDsX8ntq4x1NqwTQZqdEUMIOH4b9M)? Pensateci…

  1. Quella incarnata da Phoenix è la migliore versione di sempre?

#8

Ho lasciato apposta questa domanda per ultima, in quanto tra confronti e classifiche pare essere sorta una tifoseria molto accanita e non voglio sicuramente finirci in mezzo. Perché ognuno ha le sue preferenze e di conseguenza un Joker che sente più affine a lui e dando per presupposto che solo il tempo, come nel caso di Heath Ledger, ci dirà come sarà accolto questo Joker una volta passato l’entusiasmo, vi invito a rivedere il film pensando ogni volta ad Arthur Fleck come protagonista e al fatto che si ritrovi ad indossare i panni del Joker. Nel complesso non credo si arriverà mai ad eguagliare la bellezza di Batman: The Killing Joke o il lato disturbante di Arkham Asylum di Grant Morrison e Dave McKean, tuttavia, guardando solo al grande schermo, se i risultati sono questi e continueranno ad esserlo io sarò solo felice, felice di amare questo affascinante villain come di poter leggere una nuova storia consapevole che potrebbe arrivare un altro bel lavoro come questo. Voi nel frattempo evitate confronti e classifiche troppo soffocanti e sentitevi liberi di scegliervi il Joker che più vi piace.

14

#11

Aspettando The Irishman, parte 3 – Bilanci e pronostici (II)

Parte 1 – Vicende produttive: https://joepicchiblog.wordpress.com/2019/07/21/aspettando-the-irishman-parte-1-vicende-produttive/

Parte 2 – Cast, personaggi e troupe: https://joepicchiblog.wordpress.com/2019/07/22/aspettando-the-irishman-parte-2-cast-personaggi-e-troupe/

Parte 3 – Bilanci e pronostici (I): https://joepicchiblog.wordpress.com/2019/07/23/aspettando-the-irishman-parte-3-bilanci-e-pronostici-i/

 

  1. Quei bravi ragazzi 2?

Su questo e sul prossimo punto, per quanto siano forse più “preoccupanti” dei precedenti, non possediamo informazioni dettagliate ma solo la possibilità di fare qualche congettura. Partiamo con un confronto già fatto, ovvero quello con gli altri gangster movies di Scorsese, specialmente Quei bravi ragazzi. Ora ne parleremo dal punto di vista puramente cinematografico, in quanto molti si aspettano (o temono) una riproposizione pedissequa della struttura e degli elementi chiave di quei film. E in parte hanno ragione, nel senso che sicuramente Scorsese attuerà la suddetta riproposizione, ma è difficile bollarla come pedissequa a priori. Ecco cosa lui stesso ha dichiarato sul mood del film in un’intervista al The Independent: “Parla d’amore, tradimento, rimorso e la tristezza e la tragedia, in definitiva, di una vita condotta in quel modo. Parla anche di perdono, non so se tutto questo rientrerà nel film, potrebbe darsi. […] Penso sia diverso [da Quei bravi ragazzi], penso che lo sia. Ammetto che ci sono – sai, Quei bravi ragazzi e Casinò hanno uno stile particolare che ho creato per loro – è già sulle pagine dello script in realtà. Costruire Quei bravi ragazzi è stato quasi come un ripensamento, al tempo andavo di fretta, sentivo che l’avevo già fatto perché avevo sperimentato tutto in termini di movimenti di macchina, montaggio e cose del genere. Lo stile dell’immagine, i tagli, i fotogrammi, tutto questo è stato pianificato in anticipo, ma qui è un po’ diverso. I personaggi sono pure più vecchi in The Irishman, sicuramente riguarda più il guardare indietro, una retrospettiva sulla vita di un uomo e sulle scelte che ha dovuto fare“.

A mio avviso, traendo le conclusioni da questa dichiarazione e da tutto ciò che ho scritto in precedenza, ci troveremo di fronte ad una miscela di vari elementi dei precedenti biopic scorsesiani, come il declino fisico ben evidente di Toro scatenato, un personaggio minore inserito tra potenti più o meno come in Casinò e, naturalmente, l’ambiente intimo e familiare di Quei bravi ragazzi. Inoltre l’assenza di Brandt come personaggio attivo può avere un suo risvolto positivo, facendo sì che il film si discosti significativamente dalla freddezza “da cartella clinica” di Quei bravi ragazzi per trovare affinità con la descrizione di sistemi e manovre complesse abbinata al dramma privato in grande stile tipica di Casinò, in una direzione ancora più nostalgica che guardi ad un passato che ritorna come una fantasma. Parliamo decisamente di un kolossal con i più grandi boss della Philadelphia degli anni sessanta, la loro infiltrazione nel sindacato degli autotrasportatori e in mezzo una vicenda destinata a passare alla storia; e per quanto non condivideranno lo stesso minutaggio, non penso ciò verrà percepito come un difetto, bensì come un enorme affresco contenente ogni figura possibile. Realizzato peraltro in una sezione del percorso artistico di Scorsese ben delineata, più orientata verso i classici del cinema orientale e che osserva tragedie con sguardo decadente, anche in momenti grotteschi come quelli di The Wolf of Wall Street.

goodfellas

In secondo luogo si tratta di un film con moltissime scene, molte delle quali preparate di giorno in giorno con gli attori: l’obiettivo è l’alchimia tra di loro, l’intensità del loro rapporto, il carisma della loro persona e delle storie che portano in scena. Ovviamente dei richiami alle loro precedenti interpretazioni ci saranno, è inevitabile ed è, anzi, perfettamente voluto. Per esempio in Quei bravi ragazzi De Niro interpretava il ladro Jimmy Conway, anche lui soprannominato Irishman, e i modi di comportarsi di quel personaggio potranno magari essere intravisti nel giovane Frank Sheeran, quando ancora si sta facendo le ossa. Ancor più interessante è il ruolo di Russell Bufalino, cioè di Joe Pesci, a prima vista decisamente anomalo, tuttavia perfettamente in linea con l’operazione: se da una parte ci stupirà vedere Stephen Graham in una parte che molti avrebbero assegnato a lui, val a dire Anthony Provenzano, dall’altra un Joe Pesci capace di suscitare timore e reverenza stando tranquillo (un po’ come Paulie di Quei bravi ragazzi) è decisamente più intrigante, a mio avviso, che rivedere sempre la stessa parte, soprattutto se consideriamo che in Toro scatenato Pesci era più misurato e comunque intenso. In più il ritratto del giovane Don Rickles diventerà, anche se involontariamente, un ricordo della sua figura e Al Pacino, ora in piena fase shakespeariana, ci riporterà con la mente al vigoroso furore che aveva in film quali Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975) e Scarface (1983).

Insomma, un ricalcare delle orme con nuovo spirito e approccio (specialmente da quando il progetto è passato a Netflix) e un amarcord metacinematografico importantissimo. Scorsese infatti non voleva girare altri film sulla mafia dopo Mean Streets, ma poi realizzò Quei bravi ragazzi e Casinò con Pileggi perché, come detto, attirato dalle tematiche offerte; e dopo questi disse che si sarebbe fermato a meno che non avesse avuto tra le mani una sceneggiatura valida e in grado di aggiungere qualcosa di diverso al genere gangster movie. Così pare essere: in The Irishman tutto, dall’argomento al territorio, sarà più ampio, dilatato e introspettivo; l’occasione perfetta per aver con sé gli attori che lo hanno seguito di più e che, includendo Al Pacino, hanno partecipato alla rivoluzione del genere gangster. Un gioco di autocitazioni o contrasti con le precedenti pellicole o addirittura un addio al genere, un po’ à la Clint Eastwood de Gli spietati (1992). La differenza sarà che qui si riuniranno in buona sostanza tutti gli attori, caratteristi e comparse di questo filone dalla New Hollywood fino agli anni 2010, grazie al fatto che molti Scorsese li ha ri-presi dalle serie TV Vinyl e, soprattutto, da Boardwalk Empire. E qualora questo faraonico cast non bastasse a suscitare i curiosi, non è tutto: se infatti verrà inoltre mantenuto un determinato momento, The Irishman potrebbe contenere un momento storico, per rimanere in tema, tanto quanto la scena del ristorante di Heat di Michael Mann, cioè uno in cui De Niro, Pacino, Pesci e Keitel interagiscono nello stesso momento. La tentazione di vedere riunite per la prima (e  forse unica) volta le vecchie glorie non solo di una tipologia di film, ma di un’intera stagione cinematografica e di un’epoca indimenticabile è davvero forte e siccome l’intera storia sarà permeata da malinconia e sguardi al passato non credo Scorsese si lascerà sfuggire l’occasione per rendere magico quell’istante e salutare il pubblico che lo segue dagli inizi con un frame da incorniciare perché pregno di un significato che sovrasta il mero prodotto, un biglietto da visita che solo il maestro e quegli interpreti sono in grado di regalarci, il tramonto che i film sulla malavita organizzata made in USA non hanno ancora avuto.

Fonti principali

11 maggio 2017, The IndependentMartin Scorsese doesn’t have the answer to life’s meaning, but he needed to ask the question (https://www.independent.co.uk/arts-entertainment/interviews/martin-scorsese-interview-the-irishman-silence-film-director-a7731351.html)

3 gennaio 2019, Deadline HollywoodPeter Bart: Gangster Movies Return In Big Way In 2019, Awakening Genre From Its Hollywood Dirt Nap (https://deadline.com/2019/01/hollywood-gangster-films-return-in-2019-mob-history-movies-1202528574/)

 

  1. Troppa CGI?

 

NBSPOILER su Rogue One: A Star Wars Story

 

A parte la paura di un lavoro magari svolto sbrigativamente negli ultimi ritocchi per una questione di tempistiche (il 4 febbraio 2019 Sebastian Maniscalco ha dichiarato al podcast di Joe Rogan che il film sarebbe uscito in ottobre e appena quattro giorni dopo la montatrice Thelma Schoonmaker, in un’intervista esclusiva ad Yahoo! Entertainment, oltre a ribadire che il film sarà diverso da Quei bravi ragazzi, ha affermato di non aver ancora ricevuto alcuna scena del primo segmento del film, a sua detta quello con gli attori ringiovaniti), la vera domanda sulla CGI è sempre la stessa: quanto influenzerà l’ambiente e, soprattutto, gli attori?

Essa, in generale, è un territorio praticamente poco esplorato da Scorsese ed ha cominciato a fare capolino nelle sue opere a partire dal 2000 circa, quando più alti budget gli hanno permesso di puntare addirittura a kolossal come Gangs of New York o The Aviator. In quest’ultimo gli effetti visivi sono preponderanti e, a dirla tutta, funzionano e reggono tuttora, ricreando bene i mitici voli del milionario Howard Hughes. Guardando alla maggior parte dei casi, però, c’è un motivo per cui i fan preferiscono ricordare il regista di Little Italy come portavoce di uno stile “grezzo” e crudo in cui prevalgono effetti tangibili, al di là della nostalgia per la vecchia scuola o del fatto che siano considerati più efficaci. Perché, intendiamoci, ci sono frangenti in cui la computer grafica è stata impiegata a dovere senza che nemmeno ce ne accorgessimo, ad esempio nel finale di The Departed, dove, senza fare spoiler, un animaletto è stato inserito in post-produzione; eppure, come è stato fatto notare da The CineRanter, sempre in The Departed, film in cui gli schizzi di sangue finto alimentano il senso di violenza e sporco, c’è uno sparo in testa animato al computer durante la scena clou prima del finale: dura una frazione di secondo, ma bisogna ammettere che non è invecchiato benissimo e che è proprio il resto a donare l’alone che ricordiamo tutti, sporco e crudele. E ancora The CineRanter fa notare la fantasia nella resa degli ambienti in Hugo Cabret, la maggior cura nelle scene oniriche di Shutter Island e lo sbalzo tra l’intervento invisibile in Silence e gli alti e bassi di The Wolf of Wall Street, per quanto potesse pure essere voluto, visto il netto divario tra le due pellicole, una intima e misurata e l’altra votata all’eccesso. Insomma, risultati diversi per obiettivi altrettanto diversi, più efficaci sicuramente dove il regista cercava una cura maggiore per oggetti e persone difficili da ricreare in studio o voleva amplificare la maestosità degli spazi.

Ironicamente proprio The Departed anticipava, in maniera puramente artigianale, quello che oggi sembra costituire una nuova moda nei blockbuster e che sarà alla base dell’operazione The Irishman, ovvero il processo di ringiovanimento (de-aging). Allora era bastato inquadrare Jack Nicholson in penombra o di spalle con occhiali da sole, barba più lunga e capelli tinti e pare la CGI non sia intervenuta nel momento in cui il viso viene inquadrato per la prima volta. Si trattava comunque di pochissimi istanti ad inizio film ed anche le successive produzioni, principalmente Disney e Marvel, raramente si sono spinte al oltre la singola scena nonostante il progresso tecnologico, pur con qualche illustre eccezione. Già nello stesso anno di The Departed veniva inaugurato tutto proprio in un cinecomic, vale a dire X-Men – Conflitto finale, da Lola Visual Effects (prima compagnia al mondo a fornire questo tipo di servizio specifico), che si è poi occupata del primo spin-off della saga, X-Men le origini: Wolverine (2009), in parte de Il curioso caso di Benjamin Button di David Fincher (2008) e soprattutto dei film del Marvel Cinematic Universe con validissimi se non eccellenti traguardi: se con Ant-Man (2015) e Captain Marvel (2019) ha reso bene dei giovani Hank Pym e Nick Fury piuttosto che dei ringiovaniti Michael Douglas e Samuel L. Jackson, in Captain America: Civil War (2016) e Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) si è invece superata, riuscendo magnificamente nell’impresa di riportare indietro nel tempo gli attori (rispettivamente Robert Downey Jr. e Kurt Russell) assieme ai loro personaggi (Tony Stark e Ego) senza che nemmeno la voce stonasse, specialmente nel caso dei Guardiani; stessa cosa con Avengers: Endgame (2019), dove i viaggi nel tempo la fanno da padrone.

Tralasciando poi la non proprio applaudita collaborazione della stessa Lola VFX con Moving Picture Company in Terminator Genisys (2015), bisogna citare le altre tre importanti compagnie che si sono occupate di de-aging. In primis Weta Digital, creatrice del mondo di Pandora in Avatar di James Cameron (2009) e collaboratrice di Peter Jackson, per il quale ha fatto tornare Orlando Bloom/Legolas all’epoca de Il Signore degli Anelli negli ultimi due film della trilogia de Lo Hobbit, per quanto l’abuso della CGI rendesse questo, il drago Smaug e altri dettagli delle perle nascoste nel mare della mediocrità. In secondo luogo Digital Domain, società fondata nel 1993 da Cameron, Stan Winston e Scott Ross distintasi con Apollo 13 (1995), Titanic (1997), Al di là dei sogni (1998), il già citato de Benjamin Button, la trilogia prequel degli X-Men e, parlando del nostro caso, Tron: Legacy (2010), sequel del cult targato Disney e abbastanza curato nel mettere a confronto le due controparti di Jeff Bridges (almeno come resa). Infine c’è la Industrial Light & Magic, il cui curriculum alla Lucasfilm è arcinoto ed ora ha in mano The Irishman. Ed è qui che iniziano i miei timori, visto che finora si è occupata della tecnica solo in Rogue One: A Star Wars Story (2016) e ciò ha costituito la scelta più controversa e criticata dell’operazione.

young

In realtà in Rogue One non si può parlare esattamente di de-aging, in quanto, precedendo di appena un anno lo stratagemma di Blade Runner 2049, entrambi i personaggi sottoposti al procedimento non sono interpretati dagli attori che ne vestirono i panni nella Trilogia originale. Difatti le immagini

 [SPOILER]

del Grand Moff Tarkin e della Principessa Leia sono state “riciclate” da Guerre stellari (1977) e imposte come una vera e propria maschera su due attori. Su Ingvild Deila/Leia ciò si nota pochissimo in quanto la sua comparsa dura una manciata di secondi e la rigidità dei movimenti è evidente soltanto quanto muove le labbra e sorride, complice il fatto che l’unica parola da lei pronunciata, hope, è un campionamento audio del primo film della saga; con Tarkin iniziano le note dolenti perché, nonostante Guy Henry fosse simile al defunto Peter Cushing e si fosse allenato per imitarne fedelmente postura, voce e movimenti, per esigenze di trama non era possibile mostrare un Tarkin più giovane rispetto agli eventi di Episodio IV e così è stata adottata la tecnica “al contrario”, per così dire. Ora, tralasciando le questioni etiche sulla decisione di sfruttare artificialmente l’immagine un attore scomparso da anni (Carrie Fisher all’epoca era ancora in vita e aveva dato il suo consenso, data l’impossibilità di impersonare sé stessa a 21 anni), sappiamo che il personaggio è stato inserito sia perché impossibile non citarlo in quel contesto sia per mero fan service, tuttavia uno spazio più ridotto, un maggior uso del trucco prostetico e altri banali ma funzionali accorgimenti (ripresa di spalle, riflessi nei vetri, inquadrature sotto il busto) avrebbero forse evitato di lasciar impressa una pelle lucida come plastica  in un film tutto sommato tangibile perfino nei momenti totalmente in CGI.

È pur vero che nello stesso anno abbiamo avuto un contraltare ben più efficace in televisione con il ringiovanimento di Anthony Hopkins operato dalla Important Looking Pirates nella serie Westworld e che, in sé per sé, la tecnica di Rogue One era comunque all’avanguardia. E bisogna specificare che in The Irishman si tratta di effettivo de-aging, ovvero si lavorerà su un volto a mo’ di chirurgia plastica in digitale invece che applicarne uno pre-esistente. Dei dubbi vengono dunque fugati, ma guardando le foto di Michael Douglas in Ant-Man prima e dopo la lavorazione penso sempre ai discorsi di The Cineranter e ad un semplice fatto: il volto umano conta circa 18 muscoli di cui 14 inerenti alla mimica facciale e nella vecchiaia anche una ruga può fare la differenza in un’espressione, quanto allora le performance verranno influenzate sui cambiamenti della pelle, delle sopracciglia, della fronte, delle labbra? Negli altri casi pare non essere andata così e Scorsese è un professionista che difficilmente vedo capace di fare una cosa del genere (specie se Netflix gli ha dato davvero carta bianca), ma se invece di rigirare una scena si limitassero a correggere le movenze dei protagonisti con la CGI? Sono questioni da non sottovalutare e la cautela di Netflix nel mostrare qualcosa prima dell’uscita del film con la scusa del non sentire la necessità di una campagna marketing o la preoccupazione espressa da Scorsese nel podcast A Bigger Canvas sulla difficoltà di far apparire i volti i più realistici possibile non può che fomentare questo e altri quesiti.

Perché finora abbiamo parlato esclusivamente degli attori e del de-aging, ma si andrà a “intervenire” anche sugli ambienti, sugli sfondi in green screen, sul cielo, ecc. E in quel caso bisogna temere un’eccessiva color correction o un’illuminazione povera, molto spenta anche con colori brillanti per via di una palette consona allo standard degli odierni blockbuster? O ancora, per chi ha letto il libro e sa di cosa stia parlando, riporteranno scene come l’aneddoto della lotta di Frank con il canguro, difficile da rendere su schermo senza farlo sembrare troppo ridicolo? Inoltre le foto di scena sono numerose, ma mostrano più o meno le stesse cose e gli stessi set: che in studio stiano ricreando altre scene, magari i flashback sulla seconda guerra mondiale? Potremmo andare avanti per ore, ma finché, appunto, non ci verranno mostrate fotografie ufficiali o quant’altro il nostro rimane un dubbio ancora più vago del precedente, basato soltanto su impressioni perlopiù negative e analogie con i casi precedenti. Ma dubito anche che Netflix agisca con largo anticipo, credo anzi che terrà tutto segreto fino alla pubblicazione del primo effettivo trailer e anche lì potrebbe scegliere di mostrare poco e niente per mantenere la sorpresa addirittura fino all’uscita effettiva. Quel che è certo, CGI o meno, è che Scorsese e soci hanno messo anima e cuore nel progetto, per cui non mi aspetto affatto un disastro: il nostro sa circondarsi dei giusti collaboratori e pertanto non penso sia possibile un risultato posticcio e grave; oltretutto stanno puntando tutto su questa tecnologia per raggiungere al meglio i propri obiettivi e pertanto sono pronto a qualsiasi sbavatura, se compensata dal resto. In ogni caso c’è da lodare l’intento: la vecchiaia non li ha fermati, non è troppo tardi per The Irishman!

Fonti principali

4 febbraio 2019, PowerfulJRE, canale YouTube ufficiale di Joe Rogan – Joe Rogan Experience #1237 – Sebastian Maniscalco (https://www.youtube.com/watch?v=uBkFF_inHgE)

8 febbraio 2019, Yahoo! Entertainment – Thelma Schoonmaker: Martin Scorsese’s The Irishman is not Goodfellas (EXCLUSIVE) (https://www.yahoo.com/entertainment/scorseses-netflix-movie-irishman-not-goodfellas-says-thelma-schoonmaker-200309938.html)

15 maggio 2019, podcast A Bigger Canvas della casa di distribuzione indipendente A24 (https://a24films.com/notes/2019/05/a-bigger-canvas-with-martin-scorsese-and-joanna-hogg)

 

Aspettando The Irishman, parte 3 – Bilanci e pronostici (I)

Parte 1 – Vicende produttive: https://joepicchiblog.wordpress.com/2019/07/21/aspettando-the-irishman-parte-1-vicende-produttive/

Parte 2 – Cast, personaggi e troupe: https://joepicchiblog.wordpress.com/2019/07/22/aspettando-the-irishman-parte-2-cast-personaggi-e-troupe/

Orbene, abbiamo ricapitolato il tragitto della nave e che abiti indossano i membri dell’equipaggio, resta solo da capire che bottino ci aspetta al rientro del vascello. Fuor di metafora, tenendo conto delle informazioni che abbiamo su The Irishman (racconto, personaggi, attori scelti, dettagli tecnici, ecc.), della particolare distribuzione che avrà e del percorso filmico compiuto finora da Scorsese, che pronostici possiamo fare? Cercherò di elencarvi i miei in 4 interrogativi, con tutti i pro e contro della situazione.

  1. De Niro: attore cotto?

In precedenza avevo affermato che, anche solo a livello di puro marketing, è il cast la punta di diamante del progetto ed obiettivamente è così. È palese che Scorsese abbia voluto riunire attorno a sé il meglio del meglio con cui si sia trovato a lavorare precedentemente, altrimenti non avrebbe pensato nemmeno per un secondo a richiamare svariati membri di Boardwalk Empire, terminata ormai cinque anni fa, o della sfortunata Vinyl, chiusa dopo una sola stagione per i bassi ascolti; ad ogni modo sono i tre Premi Oscar protagonisti ed Harvey Keitel a fare la differenza per i cinefili accaniti. Stiamo parlando di mostri sacri che nei suoi lungometraggi hanno lasciato un segno indelebile nella storia del cinema, in più la novità portata da Al Pacino è decisamente intrigante. Ma e se fino agli anni novanta sentire il loro nome dava un senso di sicurezza, anche minimo, su cosa sarebbe apparso sullo schermo, in seguito preservare il curriculum, di fronte all’età e ai guadagni da portare a casa, pare non essere stata la priorità. Ovviamente ciascuno di essi preoccupa in maniera diversa a seconda del grado di celebrità che ha tuttora.

Dal 2000 ad oggi, escludendo il 2008 e il 2011, sono usciti ben 48 film con Keitel, in pratica una media di 3 all’anno. Quelli memorabili o che gli hanno dato modo di esprimere tutto il suo valore sono stati pochissimi, però è stato scelto da registi come Wes Anderson in Moonrise Kingdom (2012) e The Grand Budapest Hotel (2014) o Paolo Sorrentino in Youth (2015) e il pubblico ha ancora fiducia in lui; potrebbe esserci del malcontento per lo spazio presumibilmente breve dedicato al suo personaggio, il padrino Angelo Bruno, ma stiamo parlando dello stesso attore che con la sceneggiatura brillante di Pulp Fiction (1994) e la direzione, per la seconda volta, di Quentin Tarantino è rimasto impresso nella memoria collettiva come Mr. Wolfe pur apparendo in dieci minuti scarsi, mentre qui abbiamo la penna di Steven Zaillian e Scorsese dietro la macchina da presa, perciò credo non ci sia nulla di preoccupante e che anzi il ritorno con l’amico Martin verrà valorizzato quasi quanto quello di Pesci. E quest’ultimo preoccupa ancora meno se pensiamo che in The Good Shepherd (2006) ha avuto solo un cameo, che Love Ranch (2010) non ha suscitato particolare dibattito e che il suo ultimo film prima dei due appena citati e del ritiro dalle scene nel 1999 è stato Arma letale 4 (1998), saga in cui non ha ricevuto altro che applausi per il ruolo comico di Leo Getz; avendo smesso di far parlare di sé da molto tempo le poche performance degli anni duemila non sono state giudicate, per forza di cose, come quelle nella parte costante della sua carriera e perciò la parte di Russell Bufalino avrà una risonanza ben diversa e verrà accolta con piacere.

In breve, quelli che più lasciano un certo margine di incertezza sono Pacino e De Niro. Amo entrambi per motivi diversi, ma è innegabile che questi ultimi vent’anni non siano stati generosi con loro e nemmeno il pubblico con le proprie aspettative. Tuttavia, se dovessi essere sincero, è De Niro a darmi da pensare, in questo momento. Innanzitutto per una questione di quantità. Prendiamo in considerazione, come per Keitel, le uscite dal 2000 ad oggi: 21 per Pacino, 43 per De Niro. E la differenza si fa sentire parecchio, specialmente nella tipologia dei film scelti. Intendiamoci, schifezze come Gigli (2003) e Jack e Jill (2011) sono difficili da cancellare, ma Pacino ha avuto modo di tenere alti i propri standard a mio avviso per 3 fattori: 1) l’esperienza teatrale incentrata su ruoli shakespeariani, che continua a perfezionare e che ha persino portato sul grande schermo nel 2004 interpretando Shylock ne Il mercante di Venezia; 2) nuove regie cinematografiche con opere particolari che esprimono le sue riflessioni sull’attore e mettono in scene opere a cui tiene molto; 3) una parentesi televisiva consistente con la miniserie di Mike Nichols Angels in America (2003) e i biopic You Don’t Know Jack (2010) e Paterno (2018) di Barry Levinson e Phil Spector di David Mamet (2013). Inoltre un personaggio trattato sì in modo riflessivo, ma in ogni caso energico e rabbioso come Hoffa è decisamente nelle sue corde.

Robert De Niro

De Niro invece fino al 2010 ha alternato film di vario genere in cui ha lasciato un certo segno per poi cristallizzarsi nelle commedie e avere ruoli sempre più secondari o poco incisivi, cosa che lo ha portato, secondo vari detrattori o critici, a recitare di malavoglia e non differenziarsi più con la sua consueta preparazione da method actor. Basti pensare che negli ultimi dieci anni ha brillato davvero solo in piccole parti di 3 film diretti da David O. Russell o interpretando il truffatore Bernie Madoff in The Wizard of Lies (2017), altro biopic televisivo di Levinson, mentre ha toccato definitivamente il fondo nel 2016 con Nonno scatenato (addirittura un ironico cartellone pubblicitario recitava “Uno dei più rispettati e leggendari attori della nostra generazione. E adesso questo…“), piegandosi a quella stessa comicità volgare e di bassa lega a cui era andato incontrò Al Pacino in Jack e Jill, con solo il Razzie ottenuto da quest’ultimo a dividerli. È pur vero che il suo impegno come produttore e portavoce di New York con la TriBeCa Productions lo fa rimanere lo stesso un distinto personaggio artistico, che di film davvero brutti nella sua filmografia ce ne sono sostanzialmente pochi e che tra i restanti molti sono, piuttosto, mal riusciti nonostante valide premesse. Il succo è che egli, semplicemente, ama il suo lavoro e pur potendo evitare certi scivoloni non dà troppo peso a quello che la gente pensa che dovrebbe fare, come preservare meglio la propria eredità o addirittura abbandonare il grande schermo. E in tutta onestà forse bisognerebbe fare lo stesso per The Irishman: ogni dubbio prima di vedere il film è sacrosanto, ma il pregiudizio dettato dall’attesa ha forse compromesso la nostra oggettiva percezione delle cose. Il progetto è in buona sostanza suo, lo voleva vedere realizzato a tutti i costi e ha voluto riunirsi con Scorsese solo in una simile occasione per aggiungere un tassello di valore al loro sodalizio: entusiasmo, impegno ed energia, tutti elementi che fanno solo ben sperare in un’ennesima grande interpretazione. Non ci sono certezze che sarà grande quanto quelle degli anni settanta e ottanta, ma dovrà per forza esserlo? Un’ultima perplessità, stavolta legittima, è quella del fisico: al di là dell’aspetto e della CGI, De Niro dovrà apparire in forma smagliante come Frank Sheeran, un’irlandese alto un metro e novanta, sicario molto robusto e in gioventù pugile dilettante. Ad essa rispondono la preparazione per Il grande match (2013), film in cui ha rispolverato i guantoni di Toro scatenato (1980) contro quelli del Rocky Balboa di Sylvester Stallone, e proprio Nonno scatenato, per il quale si è rimesso davvero in forma. Per questo, fino a prova contraria, De Niro resta un protagonista affidabile che non deve certo dimostrare più alcunché e le cui recenti prove non metteranno mai in discussione quelle del passato; sulla vecchiaia sua e degli altri torneremo al terzo punto.

Fonte principale

Il PostDe Niro si sta buttando via? (https://www.ilpost.it/2016/01/22/de-niro-si-sta-buttando-via/amp/?fbclid=IwAR2YK0rXGdpr1ZMFTI44AA4mf4ml8y_mdl6-Jo25vP7X4L5Aqya-s7OvEPQ)

 

  1. Tutta la verità?

Una questione ben più spinosa riguarda invece il soggetto della pellicola, ovvero il contenuto di I Heard You Paint Houses di Charles Brandt. Per quanto il libro non abbia avuto una risonanza esattamente mondiale, fece comunque discutere gli esperti del settore e molti tuttora non credono alla versione di Sheeran sui fatti chiave. Il che è perfettamente normale in un saggio destinato ad una certo fascia di lettori e creato apposta per essere messo in discussione, ma su schermo le cose cambiano. Una pellicola (e in generale ogni opera) equivale sempre, per quanto realistica e verisimile possa essere, ad adottare un punto di vista, ponendo il fine artistico e lo svolgimento drammatico sopra ogni pretesa di verità e, teoricamente, anche il fruitore ne è al corrente. Consideriamo ora la questione da un punto di vista squisitamente etico utilizzando qualche film: Berretti verdi di e con John Wayne (1968), La caduta – Gli ultimi giorni di Hitler di Oliver Hirschbiegel (2004) e tutti i film di Scorsese tratti da storie vere. Il primo porta in scena la trasposizione di un romanzo, ergo una trama fittizia, filtrandolo con una visione profondamente repubblicana, nazionalista, anticomunista e favorevole al conflitto in Vietnam senza tener conto delle ragioni del nemico o mettere in discussioni il governo del Vietnam del Sud e quello statunitense; di conseguenza, per quanto sia una storia inventata, Berretti verdi finisce per fornire una rappresentazione talmente inverosimile di un simile evento storico che non è scorretto definirlo un vero e proprio atto di propaganda. Il film tedesco, dal canto suo, aveva un compito davvero difficile da portare a termine (nelle parole del tabloid Bild: “Siamo autorizzati a mostrare il “mostro” come un essere umano?“), eppure riuscì a guadagnarsi le lodi di pubblico e critica. In primis grazie all’interpretazione data dal compianto Bruno Ganz, in secondo luogo grazie alle modalità scelte per ritrarre la fine dell’aprile 1945 nel Führerbunker. Il confronto tra testimonianze di testimoni oculari e fonti storiche diverse è servito per dare un’accurata verisimiglianza e far sì che la tragicità degli eventi non venisse percepita come di parte; ne deriva innanzitutto un ritorno del cosiddetto mostro al “nostro” livello e quindi un contrasto efficace tra l’immagine che abbiamo del dittatore e quella di un uomo che sente su di sé il peso della sconfitta impostagli dal destino in cui crede ciecamente. L’obiettivo è in questo caso riuscito perché il film inventa dialoghi, crea scene, inquadra seguendo determinati punti di vista, ma non perde di vista i fatti e la Storia, restituendola in maniera genuina senza risultare pedantemente documentaristico.

Scorsese movies

I film di Scorsese si pongono più o meno nel mezzo poiché si basano sì su fatti storici e biografie dettagliatissime, tuttavia il motivo per cui sono rimasti nella memoria è sostanzialmente il motivo per il quale sono stati scelti, ossia il tema di un personaggio importante che si autodistrugge dopo un particolare successo e ricapitola ogni cosa facendo i conti con i propri errori nella sua professione tanto quanto nella sua vita privata. Questa formula, presente da Toro scatenato (1980) fino all’ultimo The Wolf of Wall Street (2013) e che verrà rimarcata in questo The Irishman, costituisce un terzo della filmografia di Scorsese ed è praticamente il suo tipo ideale di racconto. E ‘ideale‘ è decisamente l’aggettivo più consono. Che si parli dello stile più cronachistico di Quei bravi ragazzi (1990) e Casinò (1995) o della magnificenza epica di The Aviator (2004), la presenza della suddetta formula fa sì che siano più chiari gli intenti e si perdonino, anzi, si apprezzino determinate scelte stilistiche al fine di sottolineare il discorso in maniera comunque cruda e diretta. Ciò significa che il realismo a tutti i costi viene messo a dura prova, ma la verosimiglianza non viene meno perché, a differenza di John Wayne, a Scorsese non manca l’onestà nel mostrare determinate cose, specialmente un protagonista negativo, per cui è difficile dubitare di lui. Questo, appunto, fino a The Irishman, dove viene sentita una sola versione di avvenimenti importanti il cui dibattito è ancora aperto e sfuggente nella storia americana e, a differenza di Quei bravi ragazzi e Casinò, vengono fatti nomi e cognomi, quindi è impossibile non associare un volto e la sua storia quando sono chiamati in causa. Inoltre, anche in precedenza le biografie di Scorsese hanno riguardato persone ancora in vita, ma stavolta più che mai alcuni avrebbero da ridire su ciò che sarà mostrato; basti pensare anche solo al fatto che Peggy e Dolores Sheeran, la seconda e la terza figlia del primo matrimonio di Frank, hanno sviluppato un rapporto completamente diverso col padre e che il film si focalizzerà su quello di Peggy, tendenzialmente negativo, per pure esigenze di trama.

E come faranno quindi delle confessioni che, dando credito ai detrattori, potrebbero essere al 50-60% false a sposarsi con il tipico modo di girare di Scorsese? Come mai proprio lui, che ha sempre selezionato storie “di nicchia” o non ricordate a sufficienza e le ha rese immortali grazie alla produzione che aveva alle spalle, ne ha presa una conosciuta in più versioni scegliendo quella di un possibile bugiardo col rischio di fornire una falsa risoluzione a cui il pubblico generalista, non interessato al caso Hoffa o dotato di poco spirito critico, darà credito a discapito di altre indagini? Per capirci, è come se un regista di punta realizzasse un film che riveli la verità sul caso Emanuela Orlandi e ci fosse il sospetto che gli indizi siano frutto della mente di un mitomane: per quanto bello non avrebbe la credibilità né sicuramente l’onestà necessarie per farsi valere sull’argomento o addirittura rimanere impresso. Il caso è tuttora irrisolto e non sarà certo un film a cambiare le cose, ma a livello produttivo si imporrà sugli altri prodotti in passato e una posizione così fortemente soggettiva si distaccherà enormemente, per esempio, dal racconto a vicende concluse di un Henry Hill o un Sam Rothstein. Non insisto a caso poiché è quasi impossibile non collegarsi, con i dovuti paragoni, a Quei bravi ragazzi e Casinò, trattandosi di un gangster movie. E le similitudini non finiscono qui. Se Toro scatenato, Kundun (1997) e The Wolf of Wall Street sono autobiografie filtrate dall’occhio di uno sceneggiatore e di Scorsese regista, i due film sopracitati si distinguono nettamente per provenire da scritti di non-fiction, ovvero di ricerca tramite interviste al diretto interessato e ricostruzione con altre testimonianze, sceneggiati dallo stesso autore assieme a Scorsese; nello specifico a fare di Quei bravi ragazzi e Casinò i capolavori che sono è stata la felice trovata di riproporre su schermo il minuzioso taglio da inchiesta di Nicholas Pileggi, grazie al quale nulla di importante è stato sacrificato nelle trame e la resa finale non pecca di mancanza d’approfondimento (in effetti mi sono stupito che non sia stato richiamato per The Irishman). Brandt ha comunque contribuito a rivedere l’ultima stesura della sceneggiatura in un meeting ed ha asserito che sia fedele al testo e alla persona che fu Sheeran quando lo conobbe, perciò abbiamo un minimo di garanzia grazie a molteplici occhi critici sulle confessioni del criminale.

C’è tuttavia un paletto da porre: Il delitto paga bene e Casino: Love and Honor in Las Vegas trattavano eventi “minori” della Storia americana e i meccanismi nascosti della stessa (come la gestione dei casinò di Las Vegas da parte del Chicago Outfit); qui, anche se sempre con le rivelazioni di un singolo, si punta più in alto, alla famiglia Kennedy, il legame tra mafia e politica, la situazione sindacale degli anni sessanta, ecc., ovvero argomenti scottanti e complessi a cui sono stati dedicati decine, centinaia di saggi e documentari. Nel film verranno presumibilmente toccati in maniera trasversale, risultando secondari alla tragicità e alla malinconia evocate, ma in ogni caso, come detto sopra, ciò si traduce nell’assumere una posizione netta e chiara, fallace per alcuni, su di essi e presentare per forza di cose una risoluzione all’enigma Hoffa come il saggio originale intendeva fare, a meno che non si usino degli stratagemmi per far capire che Sheeran possa mentire. D’altro canto pure Pileggi aveva conosciuto Henry Hill e Sam Rothstein (o meglio, Frank Rosenthal), non c’è però dubbio che, mediante la sua supervisione, il distacco dalle loro osservazioni rivolte direttamente al pubblico fosse totale, in modo da trasformare spettatore e macchina da presa in un altro attore, in una presenza invisibile, un occhio imparziale sulle loro vicissitudini e azioni. Di più: Pileggi era l’occhio imparziale (con Scorsese, ovviamente), la linea di demarcazione fredda e chirurgica fra la gente comune e la figura fascinosa del criminale che vive nel lusso e nell’abbondanza senza faticare come gli altri. Non è detto che non si avvertirà la stessa cosa anche in The Irishman, tuttavia, visto il taglio più emotivo che Scorsese intende adottare, l’assenza di Brandt come voce narrante portatrice di una verità presunta ma quantomeno verificata potrebbe, più che rappresentare un problema, lasciare il fianco scoperto a critiche su passaggi nient’affatto scontati in cui la sua guida era necessaria, almeno nel libro. Ribadiamo, il film non porrà la parola fine alla questione, tuttavia siamo nell’epoca di internet e dell’informazione rapida, si legge sempre meno, si dubita tanto e si verifica poco e dunque anche un’opera di finzione cinematografica, per quanto priva di doveri morali, pedagogici o legali, viene presa come riferimento, specialmente dalla massa di persone attirata dai nomi del progetto (per quanto prevarranno gli appassionati del genere e gli accaniti fan del regista o degli attori).

Tra le varie riflessioni che il canale YouTube The CineRanter ha fatto da lettore del libro, appassionato di cinema e non-esperto sull’argomento mafia ce ne è una che riguarda da vicino la questione. Alla domanda “E se Frank Sheeran stesse mentendo?” egli risponde che le sue parole potrebbero aver alterato o dissimulato, ma ciò che è accaduto, nel complesso, è possibile, verisimile, e che Scorsese potrebbe trovare, come detto poc’anzi, un modo per mantenersi ambiguo; in effetti sarebbe un notevole tocco di classe per tenerci in bilico tra l’empatia verso l’anziano malato che avremo davanti e il disgusto per l’omicida che dichiarerà di essere stato. Tirate le somme, io credo sia meglio non darsi troppe preoccupazioni perché, anche senza accogliere a braccia aperte la versione di Sheeran, se il film non si porrà obiettivi più grossi di quelli che vuole ottenere non si sentirà la differenza e la maggioranza del pubblico verrà soddisfatta, probabilmente anche gli esperti schieratisi contro I Heard You Paint Houses, proprio per il fatto che verranno sottolineate altre cose. Ad esempio il perché Sheeran si sia confessato all’ultimo momento, quali avvenimenti lo hanno segnato di più e forse gli anni successivi alla scomparsa di Hoffa, abbastanza trascurati nel libro per più di un motivo. Si possono vedere tanti pro quanti contro a seconda della preparazione specifica riguardo l’argomento mafia statunitense, per cui non ci resta che aspettare e verificare come Scorsese si sia posto davanti a questa storia potenzialmente controversa e ad avvenimenti importanti il cui dibattito è ancora aperto e sfuggente. E Netflix con lui, ovviamente, specialmente da produttrice di serie documentaristiche notevoli come The Keepers.

Fonte principale

The Irishman | What if Frank Sheeran was lying? (https://www.youtube.com/watch?v=o3SKKtqbtUQ)

Aspettando The Irishman, parte 2 – Cast, personaggi e troupe

Parte 1 – Vicende produttive: https://joepicchiblog.wordpress.com/2019/07/21/aspettando-the-irishman-parte-1-vicende-produttive/

Ellen Lewis

The Irishman attira le attenzioni dei mass media già solo per essere il 25° film di Martin Scorsese, ma è sicuramente il cast di circa 380 membri a rappresentare il pezzo forte del progetto grazie all’effetto “riunione di famiglia” e ai vari ritorni, principalmente da Boardwalk Empire, in parte da Vinyl (entrambe serie prodotte da Scorsese per il canale HBO), organizzati da Ellen Lewis, che collabora con lui fin dai tempi del collettivo New York Stories (1989). Di seguito l’elenco dei 40 interpreti principali e dei corrispondenti personaggi.

NB. Le descrizioni delle figure storiche citate sono state scritte tenendo conto di chi non ha letto il libro o comunque non conosce in maniera dettagliata le vicende, per cui, pur trattandosi di storia nota, NON contengono alcuno spoiler importante sul saggio o sulla possibile trama del film.

Robert De Niro, il più avveduto e accorto a intravedere un potenziale nello scritto di Charles Brandt, interpreta il protagonista Frank Sheeran, l’irlandese appunto, un duro e rozzo veterano della seconda guerra mondiale divenuto in seguito camionista e sindacalista mediante l’amicizia con importanti esponenti della mafia per i quali svolgeva il ruolo di sicario e pulitore di scene del crimine, talmente provato dal diabete e dal pentimento cattolico negli ultimi anni della sua vita al punto da confessare, quasi in punto di morte, almeno 20 omicidi a tre preti e a Charles Brandt, al quale fece altre rivelazioni scottanti che costituiscono il soggetto del film. The Irishman sancisce, dopo tanto tempo, una nuova collaborazione tra De Niro e Scorsese, la nona, ad essere precisi; l’ultima era stata nel 1995 con Casinò, anche se i due si erano ritrovati come doppiatori in Shark Tale (2004) e nel cortometraggio pubblicitario The Audition (2015).

Al Pacino interpreta il co-protagonista Jimmy Hoffa, dal 1957 al 1971 Presidente dell’International Brotherhood of Teamsters, il sindacato americano degli autotrasportatori: in quegli anni difficili rafforzò la potenza dell’IBT grazie all’istituzione del fondo pensioni e ai legami con la famiglia mafiosa del Nord Est della Pennsylvania per poi scomparire in circostanze misteriose a Detroit il 30 luglio 1975; il suo corpo non è mai stato trovato. Vedremo dunque la terza reunion tra De Niro e Pacino e quest’ultimo diretto da Scorsese per la prima volta in 50 anni di carriera (il 2019 segna pure il suo debutto con Quentin Tarantino in C’era una volta a… Hollywood, ma questa è un’altra storia); dico terza semplicemente perché ne Il Padrino – Parte II (1974) i due non interagiscono mai. Da quando Michael Mann li mise uno contro l’altro in Heat – La sfida (1995), sia come ruoli che come stile recitativo, molti desideravano rivederli in coppia e purtroppo Sfida senza regole (2008) non ha soddisfatto al meglio la richiesta, ma adesso l’occasione si ripresenta con personaggi decisamente più consoni alla loro grandezza. A Pacino spetta il duro compito di calarsi in panni indossati in passato da icone come Sylvester Stallone in F.I.S.T. di Norman Jewison (1978) e Jack Nicholson in Hoffa – Santo o mafioso? di e con Danny DeVito (1992); non esattamente una cosa da poco, se si considera la popolarità in patria di Hoffa e il dibattito ancora accesso attorno alla sua sorte.

Joe Pesci interpreterà Russell Bufalino, per gli amici più stretti McGee e noto anche come il vecchio (the Old Man) o, per via del suo nome d’origine e la sua calma minacciosa, Don Rosario il tranquillo (The Quiet Don è il titolo di una sua biografia del 2013 scritta da Matthew Birkbeck); più che come amico di Hoffa e Sheeran è famoso come leader della cosca del Nord Est della Pennsylvania e per essere stato l’organizzatore della riunione di cento capi mafiosi alla villa di Joseph Barbara ad Apalachin il 14 novembre 1957, finita disastrosamente con vari arresti. Dal suo ritiro non ufficiale nel 1999 Pesci ha avuto sostanzialmente un cameo in The Good Shepherd (2006) e una parte da protagonista in Love Ranch (2010). In realtà sarebbe dovuto apparire nel film Gotti (2018), ma il tutto finì quando nel 2011 citò in giudizio la Fiore Films per non averlo scritturato nella parte del gangster Angelo Ruggiero, per la quale era ingrassato di 14 chili; la causa si è risolta in via extragiudiziale nel 2013 con un indennizzo non specificato. È la quarta volta in cui Pesci si trova sotto la direzione di Scorsese dopo Toro scatenato (1980), Quei bravi ragazzi (1990) e Casinò (1995) e in tutte ha recitato vicino al compianto Frank Vincent e a De Niro, che lo ha diretto a sua volta in A Bronx Tale (1993) e nel già citato The Good Shepherd e con cui è apparso in C’era una volta in America di Sergio Leone (1984); si ricorda che con Quei bravi ragazzi Pesci vinse l’Oscar al miglior attore non protagonista, premio per cui era già stato nominato con Toro scatenato.

Harvey Keitel, la cui carriera prosegue invece assai prolifica tra passi falsi e autori quali Tarantino, Wes Anderson e Paolo Sorrentino, interpreterà Angelo Bruno, capo dell’omonima famiglia di Philadelphia per 21 anni e soprannominato il padrino gentile (the Gentle Don) o il docile padrino (the Docile Don) per i suoi metodi inclini alla diplomazia piuttosto che alla risoluzione violenta; lo stesso ruolo è stato assunto di recente da Chazz Palmintieri, autore e attore della pièce teatrale A Bronx Tale e del suo adattamento cinematografico, nel film Legend (2015) con protagonista Tom Hardy (e alcune comparse dicono di aver visto Palmintieri aggirarsi per il set di The Irishman, non si sa se per una semplice visita o altro). Gli incontri di Keitel con De Niro e Scorsese insieme si limitano a Mean Streets (1973) e Taxi Driver (1976), ma in compenso egli ha debuttato proprio a fianco di Scorsese in Chi sta bussando alla mia porta (1967) prima di comparire in Alice non abita più qui (1974) ed essere Giuda Iscariota ne L’ultima tentazione di Cristo (1988); è tornato quindi a collaborare con lui dopo esattamente 30 anni, incrociando però a più riprese De Niro in Innamorarsi (1984), Cop Land (1997), Il ponte di San Luis Rey (2004), Vi presento i nostri (2010) e The Comedian (2016).

7-8-9. Palladino=Paquin=Mudge - Mary, Peggy, Mary Ann - Copia

11-12. Kurtzuba, Arrington - Irene e Connie Sheeran

Gli altri starring roles sono tre: Anna Paquin, nota al grande pubblico come Rogue nella saga degli X-Men e ai più cinefili per aver ottenuto a soli 11 anni il Premio Oscar come miglior attrice non protagonista per Lezioni di piano (1994, dove il protagonista maschile era proprio Harvey Keitel), sarà Peggy Sheeran, secondogenita del primo matrimonio di Frank completamente in rotta con lui dopo aver scoperto cosa si cela dietro le sue attività; Bobby Cannavale, Gyp Rosetti nella terza di Boardwalk Empire e protagonista di Vinyl, Felix DiTullio (nominato nel libro solo col secondo nome John o col soprannome Skinny Razor per via dal rasoio da barbiere con cui tagliava il collo alle galline nel suo negozio), temuto killer per la famiglia di Philadelphia e padrone del bar Friendly Lounge, dove Sheeran lo incontrò e ricevette da lui il compito di far muovere denaro in prestito durante i tragitti delle consegne in furgone; infine Ray Romano, attore e comico famoso per il ruolo principale della serie Tutti amano Raymond, il doppiaggio del mammut Manny nella saga de L’era glaciale e la presenza in Vinyl come Zak Yankovich, Bill Bufalino, avvocato rappresentante l’IBT dal 1947 al 1971 che vinse cinque volte la causa nei sette processi che coinvolsero Jimmy Hoffa e che, per questioni di immagine, faceva credere di essere cugino di Russell.

Oltre a Peggy vedremo altre figure di cui viene fatta menzione nel libro per descrivere la sfera privata e familiare dei protagonisti, nella fattispecie Aleksa Palladino, canadese famosa per aver recitato negli ultimi due film di Sidney Lumet Prova a incastrarmi (2006) e Onora il padre e la madre (2007) e in Boardwalk Empire nella parte di Angela Darmody, è Mary Leity, la prima moglie di Sheeran; Jennifer Mudge la sua prima figlia, Mary Ann, e India Ennenga Dolores, la terza; Stephanie Kurtzuba, alias Kimmie Belzer, l’unica donna dell’azienda di Jordan Belfort in The Wolf of Wall Street (2013), la seconda moglie Irene e Kate Arrington la figlia che Sheeran ebbe con lei, Connie; Kathrine Narducci, ovvero Charmaine Bucco de I Soprano e Rosina Anello in A Bronx Tale, Carrie Bufalino, la moglie di Russell; Welker White, che in Quei bravi ragazzi era la spacciatrice Lois Byrd, Josephine Poszywak, consorte di Hoffa, e Rebecca Faulkenberry e Ken Wulf Clark i loro figli Barbara e James Philip.

Tra gli attori secondari spiccano Jesse Plemons, direttamente da Breaking Bad e Fargo, come Charles Chuckie O’Brien, mediatore tra la famiglia Bufalino e Hoffa fino a quando quest’ultimo, una volta tornato in libertà, gli impedì di diventare vicepresidente della sezione 299 a Detroit (Bill Bufalino negò un suo coinvolgimento nella scomparsa del leader del sindacato, mentre Sheeran affermò che era al volante della Pontiac su cui salirono lui e Hoffa quel fatidico 30 luglio); Jake Hoffman, figlio di Dustin e Steve Madden in The Wolf of Wall Street, come Allen Dorfman, altro sindacalista e avvocato dell’IBT che gestiva soldi per conto della Chicago Outfit e al quale è ispirato il personaggio di Andy Stone in Casinò, interpretato dal comico e attore Alan King; e il britannico Stephen Graham, Tommy in Snatch (2000) di Guy Ritchie e Combo nel franchise This Is England, come Anthony Tony Pro Provenzano, caporegime della famiglia Genovese, vice presidente della sezione dei Teamsters 560 a Union City nel New Jersey e alleato-rivale di Hoffa (il quale lo chiamava dispregiativamente the Little Guy, il piccoletto), probabilmente tra i maggiori responsabili della sua scomparsa e incriminato nel 1978 in qualità di mandante dell’omicidio del vicetesoriere della sua sezione Anthony Three Fingers Castellitto (qui John Cenatiempo, attivo come stuntman in più di 220 film e presente in Boardwalk Empire e nell’episodio pilota di Vinyl). Graham non soltanto era nel kolossal di Martin Scorsese Gangs of New York (2002), ma è stato pure il rapinatore di banche Baby Face Nelson in Public Enemies di Michael Mann (2009) e nientepopodimeno che Al Capone in Boardwalk Empire.

E sempre parlando di Boardwalk Empire e pezzi grossi, ecco Domenick Lombardozzi, che esordì a 17 anni in A Bronx Tale e qui diventa Anthony Fat Tony Salerno, consigliere, sotto capo e boss di facciata di Philip Lombardo per la famiglia Genovese, oltre che gestore del più grande traffico di racket e usura nella zona di New York per un valore di circa 50 milioni di dollari l’anno dagli anni settanta fino all’arresto nel 1985. Sebastian Maniscalco, comico di stand-up di origini messicane, avrà invece la presumibilmente piccola parte del famigerato Crazy Joe Gallo, soldato della famiglia Colombo nel quartiere di South Brooklyn ucciso il 7 aprile 1972 al ristorante Umberto Clam House di Little Italy mentre festeggiava il suo 43° compleanno come punizione per i due conflitti intestini alla famiglia provocati dalla sua ribellione; Sheeran sosteneva di essere il suo assassino e di aver agito da solo, al contrario delle versioni più accreditate parlano di tre o quattro sicari mascherati inviati con ogni probabilità dai Colombo. Piccolo aneddoto: nel 1974, due anni prima di Mago in Taxi Driver,  l’attore inglese Peter Boyle era stato sia, appunto, Gallo in Crazy Joe di Carlo Lizzani sia la creatura in Frankenstein Junior di Mel Brooks, ruolo per il quale è maggiormente ricordato presso il grande pubblico.

23-24. Luke = Russo - Thomas e Stephen Andretta

Jeremy Luke, il boss Mickey Cohen nella serie Mob City, e Joseph Russo, per ironia della sorte un giovane Joe Pesci in Jersey Boys di Clint Eastwood (2014), saranno i fratelli Thomas e Stephen Andretta, e Louis Cancelmi, altro piccolo volto televisivo, lo strozzino Salvatore Sally Bugs Briguglio, associati di Tony Provenzano iscritti alla sua stessa sezione rispettivamente come business agents e segretario del tesoro (quest’ultima carica Briguglio la ottenne partecipando nel 1961 all’omicidio di Castellitto, scomparso in maniera pressoché identica a Hoffa). È importante citare assieme i tre scagnozzi di Provenzano poiché, sulla base delle informazioni fornita dall’ex-autista di Provenzano Ralph Picardo, il pubblico ministero li convocò a un gran giurì federale a Detroit il 4 dicembre 1975 per interrogarli sul caso Hoffa ed essi rifiutarono di rispondere a qualsiasi domanda appellandosi al quinto emendamento. Il 21 marzo 1978 Briguglio fu assassinato a Mulberry Street, nella Little Italy di New York, prima di apparire come imputato e testimone nel processo per l’omicidio Castellitto nel quale fu dichiarato colpevole il suo capo Tony Pro; gli Andretta furono invece condannati l’anno successivo per tangenti e non si conosce il loro stato attuale. Oltre a costoro nella lista dei principali sospettati sono presenti il fratello di Briguglio Gabriel, Russ Bufalino, O’Brien e Anthony Tony Jack Giacalone, caporegime della Detroit Partnership che potrebbe aver accompagnato Hoffa durante l’ultimo tragitto in quanto Hoffa stesso, secondo quello che riferì ad altri, disse di voler incontrare lui e Provenzano quel giorno, nonostante gli alibi dei due smentiscano la loro presenza al parcheggio dove fu visto l’ultima volta; avrà il volto di Patrick Gallo, autore di cortometraggi e occasionalmente montatore di alcuni episodi di Cacciatori di fantasmi. Il giornalista investigativo Dan Moldea, autore di The Hoffa Wars, è convinto che il coinvolgimento di Giacalone, Briguglio e gli Andretta sia stato addirittura superiore rispetto a quello di Sheeran.

Ancora qualche personaggio secondario. Bo Dietl, ex-investigatore che ha interpretato se stesso in The Wolf of Wall Street ed è apparso in Quei bravi ragazzi e in Vinyl, è Joe Glimco, detto il tosto (Tough Guy), caporegime della Chicago Outfit considerato “il principale ricattatore” della città negli anni cinquanta e stretto collaboratore di Al Capone, Sam Giancana e infine Jimmy Hoffa; per lui continuò la sua strategia di intimidazioni e assalti a varie divisioni (ai quali partecipò proprio Sheeran) per mantenere il controllo del sindacato a Chicago in cambio di prelievi dal fondo pensioni, fino a quando una serie di problemi legali lo costrinsero a farsi da parte negli anni sessanta. Craig Vincent, che in Casinò recitava la parte del cowboy buzzurro che appoggia i piedi sul tavolo da gioco e offende Asso, è invece Edward Grady Partin, business agent dei Teamsters a Baton Rouge, Louisiana, e testimone a sorpresa nel 1962 in un processo al leader dell’IBT per corruzione, fornendo così la chiave per incastrarlo nel 1967 per manomissione della giuria. L’immunità retroattiva ricevuta dal Dipartimento di Giustizia gli consentì di non essere perseguito dalle molteplici accuse che macchiavano la sua fedina penale e anche se egli negò di essere mai stato contattato dal team Get Hoffa di Bob Kennedy o dal governo ciò sarebbe comprovato dal fatto che il Dipartimento di Giustizia pagasse la sua ex-moglie e madre dei suoi cinque figli con 300 dollari al mese, somma corrispondente all’ammontare degli alimenti dovuti.

31. Jim Norton e Don Rickles

Un’ultima figura importante da citare riguardo le attività dell’IBT è sicuramente Frank Fitzsimmons, impersonato in Hoffa dal caratterista J. T. Walsh e qui da Gary Basaraba, attore noto per aver interpretato spesso dei poliziotti e Sant’Andrea ne L’ultima tentazione di Cristo. Dopo una scalata al potere grazie all’influenza dell’amico Hoffa (che comunque lo trattava come un galoppino), nel luglio 1966 fu eletto vicepresidente generale dell’IBT e il 28 febbraio 1967, un mese primo che il suo “mentore” finisse in carcere, presidente in carica (acting president); a quel punto sfruttò le proprie abilità di negoziatore dei contratti e aumentò il potere del sindacato con iniziative e cambi nel consiglio d’amministrazione che distrussero il dominio di Hoffa e lo portarono a ricoprire la carica  di presidente fino al 1981.

Danny A. Abeckaser, ex-impresario di night club datosi al cinema e produttore, regista, sceneggiatore e interprete principale di First We Take Brooklyn (2018) con Harvey Keitel, viene accreditato come interprete del personaggio (a quanto pare inedito) di Louie Deadbeat, ovvero scroccone: stando alle foto dal set e al nomignolo potrebbe trattarsi di un debitore di Skinny Razor, forse punito da Sheeran. La cosa curiosa è che Abeckaser è regista e produttore  di un lungometraggio intitolato Apalachin, anch’esso previsto per quest’anno e in cui impersona il boss Joseph Barbara. Un altro singolare retroscena riguarda Jim Norton, il quale, in virtù delle sue doti di comico, incarnerà un giovane Don Rickles, anch’egli stand-up comedian, che per Scorsese è stato Billy Sherbert, il direttore del Tangiers in Casinò: Norton è stato infatti preso senza sostenere un provino e De Niro in persona gli ha chiesto di aggiungere del proprio materiale al repertorio di Rickles, che purtroppo è venuto a mancare il 6 aprile 2017 all’età di novant’anni, senza riuscire a dare nuovamente voce a Mr. Potato per il quarto capitolo della saga di Toy Story della Pixar (anche se comparirà tramite frasi non utilizzate o modificate).

Sembra che non vedremo Vito Genovese e Carlo Gambino, ideatori della riunione di Apalachin per discutere della loro successione rispettivamente a Frank Costello e Albert Anastasia nel comando di due delle cinque famiglie, ma è anche giusto che sia così, in quanto gli alti giochi di potere della Commissione non riguardano propriamente la storia “locale” di Hoffa e Sheeran, per quanto quest’ultimo, nel corso del racconto, citi questa e altre grandi tappe della storia della mafia statunitense a lui legate in maniera trasversale. In compenso, oltre a Bufalino, Bruno, Salerno, Gallo e Glimco, intravedremo in determinati frangenti altri 5 grossi calibri, per il quanto il minutaggio finale li ridimensionerà a figure di contorno. Per cominciare abbiamo Larry Romano, alias Prima Base in Sorvegliato speciale con Sylvester Stallone (1989) e attore secondario in grandi titoli quali Sleepers (1996), Donnie Brasco (1997) e La sottile linea rossa (1998), nei panni di Philip Testa, amico di Angelo Bruno e suo successore per un anno prima di morire in un’esplosione che portò ai dieci anni del regime del violento e arrogante Nicodemo Little Nicky Scarfo; Testa era noto soprattutto per gestire gli affari con il figlio Salvatore, per il suo lookda idraulico” e per il soprannome The Chicken Man, derivante sia dal fatto che si occupasse di pollame, sia dal viso butterato a causa di un grave caso di varicella (in inglese chickenpox).

Poi c’è John Polce, attore apparso brevemente in The Departed (2006) e che più di ogni altro ha lavorato a stretto contatto con De Niro, poiché tra gli anni novanta e i primi duemila non solo ha avuto ruoli minori in sei film dove era protagonista, ma gli ha anche fatto da stand-in (persona che prima delle riprese si mette nelle posizioni dell’attore per scopi tecnici come controllo delle luci e impostazioni della macchina da presa) in pellicole come Jackie Brown (1997), Sesso & potere (1997) e Flawless (1999) e da stuntman in Voglia di ricominciare (1993), A Bronx Tale, Casinò, The Fan (1996), Paradiso perduto (1998) e Nascosto nel buio (2005). Qui invece si mette in gioco  in prima persona nella parte di Joseph Colombo, capodecina della famiglia Profaci coinvolto per tutti gli anni sessanta nella faida con i fratelli Gallo, fomentata dai nuovi boss Genovese, Gambino e Gaetano Lucchese per rompere l’alleanza con i Bonanno. Fu tra i sei uomini di punta rapiti il 27 febbraio 1961 dai Gallo assieme a Frank Profaci, fratello del boss Giuseppe, e Joseph Joe Malayak Magliocco, cognato di Don Peppino e suo vice, e fu sempre lui a vedersi affidato da Magliocco, divenuto capofamiglia dopo la morte di Profaci e messosi in combutta con Joe Bonanno, l’incarico di eliminare Lucchese, Gambino ed altri; egli invece rivelò tutto alla Commissione, la quale, viste le condizioni di salute di Magliocco, decise di affidare il comando della famiglia a Colombo, che a 41 anni si ritrovò ad essere il più giovane boss di New York. Molti lo ricordano per la Lega dei diritti civili degli italoamericani (malvista dalla Commissione per la troppa attenzione venutasi a creare) e per alcuni aneddoti legati alla produzione de Il padrino (1972). Il 28 giugno del 1971, mentre stava per iniziare un discorso al Columbus Circle di Manhattan, un afroamericano, tale Jerome Johnson, gli sparò tre volte alla testa, mandandolo in coma. Si sospettò subito di Joe Gallo, appena uscito di galera e pronto a riprendere la faida e il potere; Gallo, come detto più sopra, venne ucciso l’anno successivo, mentre Colombo morì, ancora paralizzato, nel 1978.

Craig DiFrancia, piccola costante di molte serie televisive tra le quali, manco a dirlo, Boardwalk Empire, impersonerà il successore di Colombo, Carmine Persico, Jr. Membro della decina dei Gallo, costui partecipò prima al rapimento dei Profaci nel febbraio 1961 e poi, il 12 agosto del medesimo anno, al tentato assassinio di Larry Gallo al Sahara Lounge proprio per conto dei Profaci: il repentino cambio di bandiera gli procurò il soprannome the Snake, la serpe, mentre quello di Immortal lo ottenne sopravvivendo a vari attentati dei rivali nel corso del 1963 (in uno di esso addirittura sputò un proiettile che gli aveva attraversato la faccia). Tutto questo prima di diventare caporegime per Colombo e, dopo l’attentato al Columbus Circle, il nuovo padrino. Persico è spirato il 7 marzo 2019, dopo essere rimasto in carica dal carcere per più di 30 anni nonostante un’evasione e le varie aggressioni e, per molto tempo, l’unico rimasto in vita tra i cinque boss condannati a cento anni di prigione al maxiprocesso alla Commissione mafiosa del 1985-86 (Mafia Commission Trial), in cui, tra gli imputati, era presente anche Fat Tony Salerno come “rappresentante” della famiglia Genovese.

Al Linea, Matteo D’Allessio in 5 episodi di Boardwalk Empire, è Sam Momo Giancana, membro della Banda dei 42, guardia di Al Capone degli anni venti e capo incontrastato della Chicago Outfit dal 1957 al 1966 grazie all’espansione del controllo sulle scommesse clandestine; nel corso degli anni è stato collegato all’elezione di John F. Kennedy nel 1960 (pare che il boss e Joseph, patriarca della stirpe Kennedy, fossero in contatto tramite il protetto di Giancana, nientemeno che Frank Sinatra), al tentato omicidio di Fidel Castro da parte della CIA e all’assassinio di Kennedy nel 1963. Noto nell’ambiente principalmente come set dresser, Garry Pastore sarà Albert Mad Hatter Anastasia, da noi famoso per esser stato interpretato da Alberto Sordi in Anastasia mio fratello ovvero il presunto capo dell’Anonima Assassini di Steno (1973). Nato Umberto Anastasio, si fece conoscere durante il Proibizionismo come uno degli esecutori dell’omicidio del boss Joe Masseria nel 1931 (gli altri erano Vito Genovese, Joe Adonis e Bugsy Siegel) su iniziativa di Lucky Luciano al fine di terminare la cosiddetta guerra castellamarese e fu premiato venendo introdotto come capodecina nella famiglia di Vincent Mangano e nella Murder, Inc. (gruppo di killer italiani ed ebrei a pagamento per conto della neonata Commissione) con Louis Lepke Buchalter. Negli anni 50 s’impadronì della cosca facendo sparire di lupara bianca Mangano e ammazzandone il fratello, ma nel 1957 scelse il capodecina Carlo Gambino come suo vicecapo, decretando la proprio fine. Come riportato sopra, Genovese e Gambino miravano a rilevare le famiglie Luciano e Mangano: Frank Costello cedette per panico dopo essere stato ferito di striscio, mentre la mattina del 25 ottobre 1957 due uomini incappucciati spararono ad Anastasia mentre era dal suo barbiere al Park Sheraton Hotel. Nessuno, nemmeno Gambino, fu incriminato, ma si sospetta che sotto i cappucci ci fossero Carmine Persico ed uno dei fratelli Gallo.

39. Huston ; MacKenzie ; Bronson

40. DiCaprio - Bob Kennedy

Si intravvederanno, infine, le figure di F. Emmett Fitzpatrick, district attorney di Philadelphia e legale di Sheeran, e del commissario e sindaco della città Frank Rizzo, rispettivamente Stephen Mailer e Gino Cafarelli. In ruoli non ancora specificati abbiamo Jack Huston, il cecchino Richard Harrow in Boardwalk Empire; J. C. MacKenzie, caratterista apparso in The Aviator (2004), The Departed e The Wolf of Wall Street che conta più di 150 apparizioni in oltre 40 serie televisive; e Action Bronson, rapper, presentatore e cuoco. Alcune voci di corridoio parlano addirittura di un cameo di Leonardo DiCaprio in tre scene come Robert F. Kennedy quando da attorney general guidò il processo contro Hoffa, tuttavia si tratta solo di speculazioni. Ray Liotta, ovvero il protagonista Henry Hill in Quei bravi ragazzi, aveva invece espresso interesse nell’ottenere una parte, ma dal suo disappunto in un’intervista successiva pare non sia stato preso in considerazione.

Steve Zaillian

Produttori accreditati: De Niro con Jane Rosenthal per la TriBeCa Productions, Scorsese con Emma Tillinger Koskoff per la Sikelia Productions, Randall Emmett (Cani sciolti, Lone Survivor, Silence, Amityville – Il risveglio e Gotti) e Gastón Pavlovich, presidente, amministratore e fondatore di Fábrica de Cine. Quasi un’autoproduzione, insomma, per la quale erano però necessari gli ingenti contributi soprattutto tecnologici di cui si è fatta carico Netflix dopo il rifiuto di Fábrica, che in un modo o nell’atro ha comunque mantenuto qualcuno dentro al progetto. Su IMDb sono citati come produttori esecutivi Richard Baratta, Niels Juul, Jai Stefan e Berry Welsh, più David Webb (Silence, ma anche Argo, 2012, e Suburbicon, 2017) come co-produttore e Irwin Winkler, storico produttore della saga di Rocky, di Uomini veri di Philip Kaufman (1983) e dei classici di Scorsese New York, New York (1977), Toro scatenato e Quei bravi ragazzi, più, nel nuovo millennio, The Wolf of Wall Street e Silence. Sul versante tecnico: alla fotografia, dopo The Wolf of Wall Street e Silence, torna Rodrigo Prieto (collaboratore di Alejandro González Iñárritu nella trilogia sulla morte e Biutiful, 2010) e al montaggio la collaboratrice e amica di sempre Thelma Schoonmaker, mentre i costumi portano la firma del tre volte Premio Oscar Sandy Powell; effetti speciali ad opera della Industrial Light & Magic, sezione della Lucasfilm nota per i franchise di Indiana Jones e Star Wars.

Alla score l’ancora sconosciuta Seann Sara Sella, che in futuro potrebbe occuparsi del progetto fortemente voluto da Scorsese e DiCaprio The Devil in the White City, mentre la soundtrack non originale verrà curata da Robbie Robertson, mitico chitarrista del gruppo rock The Band dal 1968 al 1977, grande amico di Scorsese fin dai tempi in cui questi filmò il loro ultimo concerto ne L’ultimo valzer (1978) e già suo consulente nella selezione di brani non originali in sei film oltre che compositore di un paio di pezzi per Il colore dei soldi (1986). E per ultimo ma non ultimo abbiamo Steven Zaillian alla sceneggiatura, il cui curriculum non si limita affatto all’Oscar per Schindler’s List di Steven Spielberg (1993), ma comprende altri film di valore tra i quali è giusto citare Risvegli di Penny Marshall (1990) con De Niro co-protagonista di Robin Williams, L’arte di vincere di Bennett Miller (2011), Millennium – Uomini che odiano le donne di David Fincher (2011) e Hannibal (2001), American Gangster (2007) ed Exodus – Dei e re (2014) di Ridley Scott, oltre che la miniserie The Night Of (2016), di cui è anche regista. Interessante notare, inoltre, che Zaillian collaborò con Jay Cocks e Kenneth Lonergan per Gangs of New York, mentre qui debutta come sceneggiatore in solitaria per Scorsese con la consulenza finale di Charles Brandt. Potremmo dunque immaginarci un incrocio tra Schindler’s List e American Gangster con lo stile tipico di Toro scatenato e Quei bravi ragazzi, cosa tutta da verificare non appena partiranno i titoli di testa.

 

Fonte principale

IMDb: https://www.imdb.com/title/tt1302006/fullcredits

 

Aspettando The Irishman, parte 1 – Vicende produttive

Cover

Nel 2013, in una libreria de La Feltrinelli a Brescia, il mio sguardo incrociò due libri fondamentali: il primo era la celebre intervista di François Truffaut ad Alfred Hitchcock, il secondo, dalla copertina rosso sangue con la foto di un personaggio a me ignoto, aveva una fascia gialla attorno che recitava “Da questo libro sarà tratto il prossimo film di Martin Scorsese“. Alla fine optai per Il cinema secondo Hitchcock, mentre l’altro rimase un rimpianto fino all’estate successiva, quando lo comprai e lo lessi tutto d’un fiato in una settimana. Quel libro era I Heard You Paint Houses di Charles Brandt e per vederlo trasposto ci sono voluti circa dieci anni principalmente a causa della realizzazione, nel frattempo, di quei grandi titoli che sono The Wolf of Wall Street (2013) e Silence (2016). Ma ormai l’attesa per The Irishman in questo ricchissimo 2019 si fa sempre più tenue e fremo per sapere se ne sarà valsa la pena. Eppure non è stato tutto rosa e fiori in questa decade, anzi, trattative e rinvii hanno occupato la maggior parte del tempo e ad un certo punto la produzione ha seriamente rischiato di bloccarsi. Ripercorreremo dunque il tragitto che ha fatto la storia di Frank Sheeran per passare da manoscritto a film, guarderemo a interpreti e controparti e vedremo infine che osservazioni trarne.

Se il libro uscì nel 2004, l’interesse per una trasposizione nacque verso il 2008, appena dopo la vittoria agli Oscar di The Departed. Era ancora tutto vago, Scorsese stava sia girando Shutter Island che completando il documentario George Harrison: Living in the Material World, la GK Films aveva acquistato i diritti de La straordinaria invenzione di Hugo Cabret e Leonardo DiCaprio quelli dell’autobiografia Il lupo di Wall Street (dalla quale, peraltro, Scorsese cercò di trarre una sceneggiatura proprio prima di iniziare le riprese di Shutter Island, in cinque mesi che egli definì “buttati via” dopo che la Warner Bros. non gli diede semaforo verde per la pre-produzione) e il progetto era semplicemente approdato alla Paramount Pictures mediante la casa di produzione del regista Sikelia Productions. Il maggior interessato era Robert De Niro in persona, disposto a finanziare il film con l’aiuto di Jane Rosenthal e la loro associazione TriBeCa Productions e desideroso che un copione interessante lo riunisse ancora una volta con l’amico, ma questi si trovava con vari progetti tra le mani ed era quindi una questione di scelte, oltre che ovviamente di spese, priorità dettate da diritti, impegni coi produttori, date di uscita e via dicendo. Ad esempio i due documentari A Letter to Elia (co-regia di Kent Jones) e La parola a Fran Lebowitz, usciti entrambi a fine 2010, non gli sottrassero molto tempo se non quello per la post-produzione di Hugo Cabret e di Living in the Material World, mentre altre idee, che si trattasse dei vociferati biopic su Theodore Roosevelt o Frank Sinatra o del tanto agognato adattamento del romanzo Silenzio di Shūsaku Endō, avrebbero richiesto più tempo ed energie. Tuttavia, per quanto Il lupo di Wall Street e, appunto, il dramma religioso Silence fossero in cima alla lista, dal 2010 si iniziò a parlare anche di The Irishman come un vero e proprio soggetto in divenire; addirittura in un’intervista a MTV del 16 aprile De Niro disse: “Abbiamo un’idea molto ambiziosa. La nostra intenzione è quella di dividere il film in due parti o addirittura di realizzare due differenti pellicole. È un’idea venuta allo sceneggiatore Eric Roth [Premio Oscar per Forrest Gump, ndr] che ha pensato di combinare i due film usando lo stesso materiale per creare un’opera del tutto differente, un lavoro sulla memoria che ricordi o La dolce vita, un’opera autobiografica basata sul vero rapporto che sussiste tra me e Marty.” L’intento sarebbe stato, dunque, quello di utilizzare l’espediente biografico per guardare al loro modo di lavorare e rivedersi nell’altrettanto fruttuoso rapporto di amicizia e complicità criminale tra Jimmy Hoffa e Frank Sheeran, tra ricordi, rimpianti, momenti difficili e gioie passate. Purtroppo questa fu una delle poche dichiarazioni riguardo al progetto per anni e l’idea dell’omaggio alla collaborazione della coppia d’oro della New Hollywood fu a quanto pare accantonata durante le cinque bozze della sceneggiatura scritte dal Premio Oscar Steven Zaillian.

The Audition

Tra il 2012 e il 2013 Scorsese si dedicò finalmente a The Wolf of Wall Street e, per ben 18 mesi, a The 50 Year Argument, documentario co-diretto con David Tedeschi sui cinquant’anni del bisettimanale letterario The New York Review of Books, in verità accolto piuttosto tiepidamente. Il 19 aprile 2013 Deadline Hollywood annunciò che il prossimo lavoro sarebbe stato Silence, dopo 24 anni di rimandi, tentennamenti e addirittura un’azione legale da parte di Vittorio Cecchi Gori; a febbraio 2014, dopo il successo mietuto in sala da The Wolf, cominciò la ricerca delle location a Taiwan per poter contenere i costi e far iniziare a luglio le riprese, poi rimandate al 30 gennaio 2015 e terminate il 15 maggio. In questi tre anni The Irishman (o perlomeno la sua sceneggiatura) divenne concreto e le voci sulla partecipazione di vecchi amici quali Joe Pesci e Harvey Keitel, oltre che di Al Pacino, si fecero sempre più solide: a inizio 2013, con l’imminente arrivo di The Wolf, il libro esordì anche in Italia; il 9 settembre 2014 Pacino diede conferma che il film era in fase di sviluppo e che sarebbe uscito subito dopo Silence; il 5 ottobre 2015 De Niro disse che stavano pensando di ringiovanire lui e colleghi nei periodi ambientati nel passato “come accaduto con Il curioso caso di Benjamin Button”. Inoltre il 3 ottobre 2015, al 20° Busan International Film Festival, si svolse una proiezione preliminare di The Audition, cortometraggio pubblicitario girato in occasione dell’apertura dello Studio City Macau Resort and Casino il 27 ottobre. In quel quarto d’ora, oltre ad un’apparizione di Brad Pitt, il mondo vide Scorsese, De Niro e DiCaprio riuniti tutti insieme per la prima volta sul grande schermo. Il cortometraggio infatti prendeva in giro i sodalizi del regista di Little Italy con i due, ma se il secondo stava ormai diventando una nuova costante della filmografia scorsesiana, rivedere De Niro con lui dopo vent’anni dall’uscita di Casinò non era cosa da poco e probabilmente The Audition fu un ulteriore stimolo per l’attesa del grande ritorno durante la lunga post-produzione di Silence.

Insomma, ormai bisognava “solo” reperire i finanziamenti. Ed essi non tardarono ad arrivare. Il 13 maggio 2016, durante lo svolgimento del 69° Festival di Cannes, Variety riportò che era ormai questione di un giorno prima che la casa di produzione messicana Fábrica de Cine (una delle otto che avevano sovvenzionato Silence) concludesse, dopo oltre un mese, le trattative con la Paramount per produrre il film con un finanziamento di 100 milioni di dollari; la Paramount avrebbe mantenuto i diritti di distribuzione sul suolo nordamericano. Appena due giorni dopo Deadline lanciò un’altra esclusiva: l’accordo era stato finalizzato e STX Entertainment aveva acquistato i diritti internazionali ad una cifra (pare) di 50 milioni a discapito di altre compagnie interessate tra cui Lions Gate Entertainment e  Universal Studios. Gastón Pavlovich, presidente di Fábrica, si disse entusiasta della collaborazione con i preparati dirigenti di STX, azienda in ascesa che aveva appena aperto una nuova divisione e firmato un accordo triennale con Huayi Brothers Media Corp, la più grande società cinematografica privata cinese (a tal proposito, i diritti di distribuzione in Cina andarono a Media Asia il 16 agosto). “È un evento cinematografico che probabilmente non si ripeterà mai“, dichiarò un altro dirigente a Deadline, “È Scorsese con De Niro. È Scorsese con Pacino per la prima volta. Crediamo fortemente nell’abilità dei registi. La decisione su chi unirci è davvero è ricaduta chi ha condiviso la nostra visione del film e ci ha creduto veramente“. Il 27 maggio, cinque giorni dopo la fine del Festival, il responsabile di Lucky Red Stefano Massenzi annunciò che essa aveva aggiunto The Irishman al proprio listino. Secondo l’amministratore unico Andrea Occhipinti, “Avere il privilegio di distribuire un film del più grande regista del cinema contemporaneo è per Lucky Red motivo di orgoglio, il riconoscimento di un lavoro quasi trentennale sugli autori, portato avanti con serietà e dedizione. Siamo emozionati e felici“. Ottenuto semaforo verde, in estate venne compiuto un ulteriore passo positivo: un incontro di due mesi tra Scorsese, De Niro, Zaillian e Charles Brandt sugli ultimi appunti da fare alla sceneggiatura; Brandt,  oltre ad essere grato per il coinvolgimento e per la suite d’albergo gentilmente offerta, alla fine dichiarò soddisfatto: “Non ho alcuna osservazione da fare. Questo è il Frank Sheeran che conoscevo e questo è il suo viaggio.

Tutto sembrava filare liscio, ma a frenare tutto quanto furono gli imprevisti con cui nessuno aveva fatto i conti. Dopo la prima mondiale al Pontificio Istituto Orientale di Roma il 29 novembre e una proiezione speciale il giorno successivo nella Città del Vaticano, Silence debuttò il 23 dicembre in una distribuzione limitata a quattro sale organizzata unicamente per concorrere agli Oscar e dal 6 gennaio 2017 la Paramount lo distribuì in altre 1576. Nonostante l’attenzione da parte del pubblico ecclesiastico e le critiche molto positive, gli incassi furono un disastro: di fronte a un budget compreso tra i 40 e i 50 milioni di dollari, la pellicola non ne incassò neanche 24, di cui 16,6 (pari al 70,1% del totale) provenienti dall’estero, con un calo del 53% alla sesta settimana di proiezione su nove nel Nord America e nessun premio di consolazione agli Oscar (ebbe una nomination solo la fotografia di Rodrigo Prieto, battuta da quella di Linus Sandgren per La La Land). Colpa del marketing nient’affatto aggressivo, degli altri concorrenti, del trailer rilasciato appena un mese prima, della lunga durata o dello scarso interesse degli spettatori per la tematica, fatto sta che le conseguenze si fecero sentire. Il budget di The Irishman stava superando i 100 milioni preventivati e un altro flop per Fábrica de Cine non sarebbe stato sostenibile, pertanto questa sciagurata coincidenza fece sì che a febbraio, non appena Pavlovich e Fábrica si chiamarono fuori, la Paramount Pictures mettesse in vendita i diritti di distribuzione nazionale. Pure quest’ultima era in cattive acque per via di un tumulto ai vertici: dopo 12 anni d’amministrazione il CEO Brad Grey, produttore, tra l’altro, di The Departed tramite la Plan B Entertainment, sarebbe stato estromesso a fine mese dopo lotte tra i suoi sostenitori e la famiglia dell’azionista di maggioranza Sumner Redstone a causa di una serie di fallimenti che avevano comportato perdite per 450 milioni di dollari, il crollo della quota di mercato e la retrocessione dietro tutte le altre cinque major hollywoodiane in ciascuno degli ultimi cinque anni civili; Grey sarebbe morto di cancro due mesi dopo, a soli 59 anni. Si evince che Silence fosse solo la punta dell’iceberg in quell’instabile quadro economico, mentre la storia di Sheeran parve tornare un miraggio, un altro sogno irrealizzabile che forse non avrebbe mai visto la luce.

Fu allora che entrò in gioco il più inaspettato dei concorrenti: Netflix, colosso dello streaming da più di 100 milioni di abbonati in 190 paesi, già messosi in gioco in produzioni originali di grande successo quali le serie House of Cards con Kevin Spacey e Orange Is the New Black. A quel punto, viste le garanzie date solo dalla sceneggiatura e dai diretti interessati, il film era diventato una vera scommessa d’autore e Netflix volle accettarla, probabilmente per potersi affacciare, con tutti i rischi, ad un panorama più ampio e portare il suo catalogo agli occhi dei critici cinematografici e dei cinefili ancora restii ad iscriversi. Dopo qualche giorno di trattative, il pomeriggio del 21 febbraio la Paramount aveva ancora in mano i suoi 15 milioni di diritti di distribuzione nel Nord America, ma già in prima serata il sito IndieWire dichiarò conclusi i negoziati per una somma vicina a 105 milioni, praticamente la stessa dell’ipotetico budget iniziale. E a quel punto, dopo soli due giorni, sorse l’ennesimo ostacolo, rimarcato da un report di Variety: STX stava valutando se intraprendere azioni legali contro il contratto in sospeso di Pavlovich con Netflix. Contrariamente infatti ad alcune voci che lo volevano fuori dai giochi nonostante le perdite di Silence, Pavlovich aveva insistito per rimanere a bordo e pare addirittura che la Paramount avesse passato prima a Fábrica i diritti per consentirgli di seguire l’accordo. Tuttavia, secondo alcune fonti, nel maggio 2016 a Cannes egli avrebbe detto ad Ari Emaneul, agente di Netflix e Scorsese per conto di William Morris Endeavor, e al manager Rick Yorn che quelli internazionali erano liberi e “completamente sgravati” nonostante STX li avesse appena ottenuti e persino rivenduti a terzi per un valore complessivo di 80-90 milioni di dollari tra 50 di accordi e altri 30-40 già assicurati di crediti d’imposta e incentivi. E la notizia che Netflix puntava al controllo globale del mercato mise in allarme gli acquirenti esteri, per nulla intenzionati a sbrogliare e cancellare gli impegni presi. Alcuni di loro rilasciarono dichiarazioni in quello stesso servizio: il rappresentante di Media Asia per Hong Kong e Olivier Van den Broeck di The Searchers per il Belgio rimarcarono il contratto giuridicamente vincolante, mentre Massenzi aggiunse stizzito: “È come se mi vendessi un appartamento e poi dicessi che qualcun altro entrerà” (il 3 marzo Occhipinti, alla presentazione della campagna Io faccio film promossa da ANICA, FAPAV, MPA e UNIVIDEO, disse più cautamente: “Noi sicuramente non ci rinunciamo, abbiamo un contratto ed è stata una sorpresa di cui non sapevamo niente, penso che neanche i venditori ne fossero al corrente. Probabilmente c’è un rapporto tra Netflix e i produttori, ma ritengo solo per il mercato americano“).

Dopo quasi un anno di riunioni, e-mail e telefonate, la situazione si concluse il 9 febbraio 2018. Una volta partiti i meeting emersero le tracce delle pratiche burocratiche dell’accordo precedente tra Fábrica e STX e poiché la prima intendeva lasciarsi alle spalle ogni possibile controversia è stato chiesto alla seconda se volesse far parte dei finanziatori, ma alla fine non fu ritenuto conveniente e per venire incontro agli interessi di tutti STX ottenne, in collaborazione con Media Asia, la distribuzione in Cina per poche settimane prima del possibile lancio sul sito web di video iQiyi; come Google, Netflix non è infatti disponibile nella Repubblica Popolare e per ovviare a ciò in aprile 2017 aveva chiuso una trattativa per dare in licenza ad iQiyi alcuni suoi prodotti originali ed immetterli così nel secondo mercato cinematografico più grande del mondo dopo il Nord America. Probabilmente si tratterà di una delle poche proiezioni nei teatri per The Irishman, in quanto sappiamo che Netflix prevede di farlo uscire in un numero limitato di sale sicuramente negli Stati Uniti e in Inghilterra (o, nelle parole di Deadline, in about 10 markets), visto che sarebbe stato esplicitamente richiesto da Martin Scorsese in fase della stipulazione del contratto. Non da sottovalutare il fatto che Cina continentale aprirebbe di nuovo le porte a Scorsese, vent’anni dopo aver bandito il suo biopic sulla vita del XIV Dalai Lama, Kundun.

Questo complicato sbroglio della matassa fortunatamente non rallentò la produzione, ormai messasi in moto. A luglio 2017 Pesci (Deadline e altre fonti raccontano che avesse rifiutato ben cinquanta volte prima di accettare) e Pacino entrarono ufficialmente a far parte del cast, seguiti a ruota da Ray Romano (13 luglio) e, nelle trattative finali, da Keitel e Bobby Cannavale, mentre Jack Huston, Stephen Graham, Domenick Lombardozzi e quasi tutti gli attori secondari, Anna Paquin e il rapper Action Bronson si aggiunsero tra l’11 settembre e i primi di ottobre, a riprese iniziate. Sempre a luglio, su Indiewire, fu riportato che la sceneggiatura era strutturata a flashback e che in tutti sarebbe apparso solo De Niro, il quale confermò questo massiccio impiego degli effetti visivi à la Benjamin Button in vece di attori più giovani, controfigure e trucco prostetico in un’intervista del 22 agosto, dove spiegava che sarebbe impossibile realizzare The Irishman senza il sostegno di Netflix: “Abbiamo bisogno dei soldi per realizzarlo nel modo giusto e non era finanziabile in nessun altro modo, o in quello tradizionale se preferite chiamarlo così. […] Gireremo prima le scene in cui il mio personaggio è giovane e poi quelle dei decenni successivi in ordine cronologico. Cercano di produrlo nel modo migliore e l’obiettivo è quello di realizzare qualcosa di speciale che chiunque vorrebbe vedere. Sono davvero entusiasta e non vedo l’ora di farlo“. Il primo ciak fu battuto ufficialmente il 29 agosto 2017 a Orchard Street, New York, e il 18 settembre 2017 si cominciò a girare fino al 5 marzo 2018, data in cui lo stesso Scorsese annunciò con una foto sul suo profilo Instagram la fine delle riprese: dopo dieci anni il cammino era finalmente terminato. Lo stesso giorno fu riferito che il budget era salito da 125 a 140 milioni, il che rende The Irishman il più costoso prodotto originale di Netflix. Se fosse però confermato il rialzo a 175 (si dice anche 200, ma forse è un’esagerazione), dovuto sì anche ai grandi cachet (quello del regista si aggira tra i 10 e i 15) ma soprattutto agli effetti visivi, si tratterebbe anche del più costoso lungometraggio di Scorsese. Finora, ricordiamo, il più caro della sua filmografia è Hugo Cabret con un budget compreso tra i 156 e i 170 milioni di dollari (e purtroppo solo 185,8 milioni al botteghino, con una conseguente perdita netta stimata a 100 milioni), mentre i 100 di Gangs of New York e The Wolf of Wall Street e  i 110 di The Aviator sono stati abbondantemente superati.

Parlando di durata al primo posto trionfa The Wolf of Wall Street con le sue tre ore (180 minuti), seguito da Casinò (178 minuti) e ancora The Aviator (170 minuti). Ebbene, The Irishman potrebbe avvicinarsi molto a queste cifre, dato che al record del periodo di riprese più lungo per il regista di Little Italy (106 giorni) si aggiunge un altro singolare “primato”. Stando alle sue parole in un’intervista risalente al 10 maggio 2018, in occasione del 71° Festival di Cannes, per il film sono state realizzate 300 scene (in media un lungometraggio ne ha tra le 40 e le 60), quantità che gli ha fatto cambiare radicalmente la loro preparazione, dalla classica pianificazione in anticipo mediante dettagliati storyboard a un modo per lui inusuale, ossia andare avanti giorno per giorno e concentrandosi sugli attori, specialmente per le scene di dialogo a doppia inquadratura da rendere più spontanee col loro contributo: “La cosa più importante è stata pensare agli attori e rendere piacevoli le riprese. Quello è diventato il fulcro della messa in scena per me. E richiama molto Fronte del porto, La valle dell’Eden e Fango sulle stelle. Film magnifici. Tutte le scene di Toro scatenato erano state disegnate su dei fogli. Prima abbiamo girato quelle di combattimento. Dieci settimane. Avrebbero dovuto essere tre. Stessa cosa per tutto Taxi Driver e Mean Streets. Innanzitutto perché avevamo poco tempo a disposizione. Avevo bisogno dei disegni da far vedere al cameraman e dirgli ‘Fai così’. Per spiegargli quello che avevo in mente.” Infine, gli effetti speciali e visivi saranno curati dalla Industrial Light & Magic, divisione della Lucasfilm famosa, ovviamente, per essersi occupata dei franchise di Indiana Jones e Guerre stellari. Al Pacino, oltre a spiegare che come metodo per interpretare Hoffa da giovane si riferiva a un ricordo della sua vita in quel periodo e provava a recitare come se fosse tornato fisicamente e mentalmente a quell’età, ha specificato la ILM ha perfezionato appositamente per il film delle macchine da presa con dei computer ai lati per tracciare il corpo (principalmente il volto e il busto, come si evince nelle varie foto dal set) partendo da localizzatori posizionati sul bavero e le spalle degli abiti e creare un primo scan dei risultati tramite fotografie scattate in studio per sistemare la direzione della luce sulla pelle e capire cosa perfezionare in post-produzione, oltre ad inserire sfondi, persone, alberi, nuvole, ecc. Attualmente si sta ancora lavorando a pieno regime per immergere il tutto nell’elisir dell’eterna giovinezza digitale in tempo per autunno 2019; nel frattempo, il 12 giugno, Netflix rilascerà il documentario Rolling Thunder Revue: Martin Scorsese racconta Bob Dylan, il suo secondo sull’artista dopo No Direction Home (2005).

Fonti principali

1 ottobre 2008, VarietyScorsese, De Niro to ‘Paint Houses’ (https://variety.com/2008/film/features/scorsese-de-niro-to-paint-houses-1117993218/)

13 maggio 2016, VarietyCannes: Martin Scorsese’s The Irishman Has Buyers Frustrated and Salivating (https://variety.com/2016/film/markets-festivals/cannes-martin-scorseses-the-irishman-has-buyers-frustrated-and-salivating-exclusive-1201773763/)

15 maggio 2016, Deadline HollywoodMartin Scorsese’s Mob Film The Irishman in Major Deal to STX After Heated Bidding War – Cannes (https://deadline.com/2016/05/martin-scorsese-the-irishman-stx-huge-deal-mob-films-cannes-1201756232/)

15 maggio 2016, Hollywood ReporterCannes: STX Wins Battle for Martin Scorsese’s The Irishman (https://www.hollywoodreporter.com/news/cannes-stx-wins-battle-martin-893113)

17 maggio 2016, IndieWireCannes: Why STX Spent $50 Million on a Scorsese Movie That Doesn’t Exist (https://www.indiewire.com/2016/05/cannes-why-stx-spent-50-million-on-a-scorsese-movie-that-doesnt-exist-290304/)

18 maggio 2016, Hollywood ReporterCannes’ $50M Bombshell: Why STX Won the Bidding War for Scorsese’s The Irishman (https://www.hollywoodreporter.com/news/cannes-50m-bombshell-why-stx-894961?utm_source=Sailthru&utm_medium=email&utm_campaign=THR%27s%20Today%20in%20Entertainment_now_2016-05-18%2006:37:29_ehayden&utm_term=hollywoodreporter_tie)

16 agosto 2016, VarietyMedia Asia Grabs China Rights to Martin Scorsese’s The Irishman (https://variety.com/2016/film/asia/china-martin-scorseses-the-irishman-1201839041/)

21 febbraio 2017, VarietyNetflix Buys Martin Scorsese’s The Irishman Starring Robert De Niro (https://variety.com/2017/film/news/netflix-buys-martin-scorseses-the-irishman-starring-robert-de-niro-1201993446/)

21 febbraio 2017, Deadline HollywoodMartin Scorsese’s Robert De Niro Pic The Irishman Heading to Netflix? (https://deadline.com/2017/02/martin-scorsese-the-irishman-acquired-netflix-robert-de-niro-1201931848/)

21 febbraio 2017, IndieWireMartin Scorsese and Robert De Niro’s The Irishman Headed to Netflix (https://www.indiewire.com/2017/02/martin-scorsese-the-irishman-robert-deniro-netflix-paramount-1201785658/)

24 aprile 2017, Hollywood ReporterNetflix Signs Licensing Deal With China’s iQiyi (https://www.hollywoodreporter.com/news/netflix-signs-licensing-deal-chinas-iqiyi-997071)

15 maggio 2017, VarietyFormer Paramount CEO Brad Grey Dies at 59 (https://variety.com/2017/film/news/brad-grey-dead-paramount-1202426862/)

9 febbraio 2018, Deadline HollywoodSTX to Distribute Martin Scorsese’s The Irishman After All With China Deal: The Crazy Backstory (https://deadline.com/2018/02/martin-scorsese-the-irishman-china-stx-netflix-backstory-1202282355/)

12 febbraio 2018, IndieWireMartin Scorsese’s The Irishman Is Getting Way More Expensive: Budget Now Estimated Over $140 Million (https://www.indiewire.com/2018/02/martin-scorsese-the-irishman-budget-140-million-netflix-1201927596/)

10 maggio 2018, IndieWireMartin Scorsese: The Irishman Has Almost 300 Scenes, Which Made It Challenging to Storyboard (https://www.indiewire.com/2018/05/martin-scorsese-the-irishman-300-scenes-1201962579/)

Box Office MojoSilence (https://www.boxofficemojo.com/movies/?id=silence2016.htm)

BAT-ANGOLO: Cavaliere Oscuro III: Razza Suprema, #9

A Lorenzo, che come me non si aspettava questo numero

[ATTENZIONE: QUESTO ARTICOLO CONTIENE SPOILER]

Signore e signori, bentornati al Bat-Angolo, l’antro della letteratura disegnata! Oggi parliamo del nono e finalmente ultimo numero de Il cavaliere oscuro III: Razza suprema, miniserie scritta da Frank Miller e Brian Azzarello con Andy Kubert ai disegni e Klaus Janson alle chine. Oramai il più è già stato raccontato, si tratta solo di riportare i remi in barca e tirare le somme. Sarà bello questo sugo di tutta la storia? Scopriamolo insieme!

5884840-09

Bruce e Carrie inseguono con la vecchia Batmobile i kandoriani, che volano nel deserto in cerca di un posto dove esplodere (nel numero precedente avevano ingerito degli ordigni nucleari). Utilizzando gli ultrasuoni, Batman manda uno storm di pipistrelli contro gli alieni, facendo sì che inavvertitamente si attacchino a vicenda con la vista calorifica. Lara si ricongiunge con loro dopo che Lanterna Verde, recuperato l’uso della mano mozzata, ha fermato (e con ogni probabilità eliminato) le mogli di Quar. Nascono dei dissapori interni agli stessi uomini di Quar, che vorrebbero smettere di lottare per il dominio del pianeta, ma lo stesso Quar, Baal e altri tre fedelissimi li inceneriscono. Bruce e Carrie si preparano a fermarli, ma a quel punto interviene Superman, il quale decide di affrontarli da solo poiché “il mondo ha bisogno di Batman“. Dopo essere stato aggredito da Baal, Clark li sorprende sconfiggendoli uno ad uno, rivelando di aver trattenuto la sua vera forza di combattimento per tutto questo tempo. Destinati a perdere, i kandoriani decidono di farsi esplodere per passare da martiri, ma… colpo di scena, il dr. Ray Palmer non era morto, come rivelato già nel quarto e nel sesto numero, si era soltanto rimpicciolito a tal punto da restare confinato nello spazio della suola di Baal quando questi lo aveva calpestato. Il suo intervento si rivela provvidenziale: gli effetti del suo raggio di restringimento vengono invertiti, facendo tornare lui a dimensioni umane e riducendo drasticamente i quattro seguaci rimasti, rendendo i loro effetti esplosivi del tutto insignificanti. Quar tenta di scappare per portare distruzione un’ultima volta, ma stavolta a fermarlo è Lara, che lo spinge ad altissima velocità verso il sole, eliminandolo definitivamente. Due mesi dopo, Superman è apparentemente scomparso e Bruce, ora consapevole che la Terra ha ancora bisogno dell’amico, lo sta cercando; Carrie ha modificato la sua tuta e si rinomina Batwoman. Batman si prepara ad affrontare la sua nuova vita e le lotte contro al crimine con lei, certo che la vecchia guardia ha ancora molto da imparare dai suoi giovani eredi. L’ultima tavola in assoluto è infatti la storica copertina del primo numero de Il ritorno del Cavaliere Oscuro, ma con l’aggiunta di Carrie e con Bruce che pensa: “Sarà una vita migliore“.

dark-knight-universe-presents-action-comics-1

L’epilogo vero e proprio si trova nel nono tie-in, intitolato Il cavaliere oscuro presenta: Action Comics #1 e scritto e disegnato da Frank Miller. La Justice League, pur non essendosi ufficialmente ricomposta, è tornata in azione, certamente più matura, più saggia e più consapevole del proprio ruolo nel mondo, come sottolinea la voce narrante di Clark. Egli, rimanendo nascosto, vuole rinsaldare il rapporto con la figlia e cercare di fare ciò che hanno fatto i Kent con lui: farle provare l’esperienza di sentirsi umana tra gli umani, razza più debole di loro e contraddittoria nelle proprie azioni, ma che può regalare la più grande delle esperienze, ossia vivere.

DKTMR09_LEE_592782cdcfbff2.69025602

E alla fine Dark Knight III si è concluso: niente finale epico, niente grandi riflessioni sulla società, niente di niente. Il tempo per sviluppare l’avventura finale e chiudere in maniera dignitosa c’era, ma già da due numeri l’azione si stava trascinando per stanca inerzia, quindi era naturale che sul finale restassero solo gli “avanzi”, gli ultimi stralci risolti in maniera frettolosa e superficiale, senza guizzi d’inventiva da parte di nessuno dei creativi dietro l’operazione. D’altro canto l’esplorazione di questo Dark Knight Universe non è stata del tutto malvagia, le matite di Kubert hanno dato qualche soddisfazione e l’ultimo tie-in rispecchia in pieno il suo titolo: è Superman a tirare le somme di quest’esperienza e la morale che lascia è speculare al finale de Il cavaliere oscuro colpisce ancora: ora Lara non è più arrogante e superiore e ha capito dove vuole stare, così come Carrie è maturata passando da girl a woman nel suo ruolo di sidekick. La cosa che fa più spiacere è osservare quanto l’intera miniserie si sia impantanata nel suo stesso percorso quando il medesimo team creativo alla guida ha prodotto un gioiello come Il ritorno del Cavaliere Oscuro: L’ultima crociata. Ovviamente parlerò di tutta quanta l’opera in una “recensione” a parte, in un discorso che tenterà di approfondire l’intero universo milleriano. Tuttavia, va detto che io e Lorenzo ci siamo divertiti e non solo perché di pancia DKIII ci abbia intrattenuto molto più di DK2: l’esperienza di attendere ogni numero con impazienza, di seguire una serie mentre viene pubblicata è unica e irripetibile ed tutti i lettori dovrebbero prima o poi sperimentarla per capire come andrebbero lette le opere seriali, anche se i risultati non saranno magari pari alle aspettative.

Bene, con questa morale scarna quanto la miniserie stessa, l’articolo di oggi, il primo dell’anno, finisce e con esso l’avventura di Miller e soci; noi pertanto, in attesa di nuove recensioni o analisi di film, ci vediamo al prossimo fumetto!

BAT-ANGOLO: Cavaliere Oscuro III: Razza Suprema, #8

A Lorenzo, insieme verso il gran finale e oltre

[ATTENZIONE: QUESTO ARTICOLO CONTIENE SPOILER]

Signore e signori, bentornati al Bat-Angolo, l’antro della letteratura disegnata! Oggi parliamo dell’ottavo numero de Il cavaliere oscuro III: Razza suprema, miniserie di 9 numeri scritta da Frank Miller e Brian Azzarello con Andy Kubert ai disegni e Klaus Janson alle chine. Nonostante gli autori abbiano da tempo immemore annunciato un gran finale nel numero aggiunto, ora come ora io e il mio socio, stanchi tanto per le tempistiche di Miller e soci quanto per quelle della distribuzione RW Lion (maledetto evento Rinascita che ha rallentato le uscite!), compriamo i numeri solo per inerzia, completezza e curiosità, esattamente in quest’ordine. Ma basta lamentele e diamo il via alle danze!

DKIII #8

La scorsa volta ci eravamo lasciati con la resurrezione di Bruce tramite il Pozzo di Lazzaro e l’arrivo dei kandoriani a Themyscira. In questo inizio vediamo Bruce e Clark tornare alla Batcaverna dopo che Carrie si era rassegnata alla perdita del proprio mentore, mentre nel frattempo le Amazzoni di Wonder Woman sono decise a dare battaglia senza prigionieri. La stessa Diana chiama la base di Gotham per informarli dell’attacco kandoriano mentre Bruce apre un garage con dentro una delle vecchie Batmobili. Lara è indecisa con chi schierarsi e non agisce, mentre la madre e il suo popolo fanno a pezzi i kandoriani. Superman arriva a battaglia terminata, ma proprio in quel momento Flash avvisa che Quar e i restanti hanno ingerito delle bombe nucleari e hanno iniziato un conto alla rovescia, quindi bacio appassionato tra i due innamorati finalmente ritrovati e Clark che vola a risolvere la situazione…

5778028-08-mini

L’ottavo tie-in si intitola Il cavaliere oscuro presenta: Detective Comics #1 ed è scritto e disegnato da Frank Miller. Il commissario Yindel, accompagnata da due agenti, corre nel luogo indicato da una vittima che sostiene di essere ancora viva, ma trova solo parti del corpo mutilate appese come trofei. Subito dopo lo shock i tre vengono attaccati da ex-mutanti vestiti come il Joker (Joker Boys, in contrasto con l’esercito dei Batman Boys). Gli agenti vengono uccisi e Yindel viene malmenata nientemeno che da Bruno, donna sgherro del Joker dall’aspetto nazista già apparsa nel terzo numero de Il ritorno del Cavaliere Oscuro. I Joker Boys stanno per tagliare a pazzi Yindel su un tavolo, ma Batman e Batgirl arrivano a salvarla, senonché Bruno e Yindel rimangono entrambe ferite gravemente da fuoco nello scontro a fuoco. Perdendo coscienza, Yindel accetta il fatto di essere ormai d’intralcio agli eroi e li esorta con lo sguardo a correre a salvare il mondo. L’ultima vignetta mostra Batman e Carrie correre verso un mezzo corazzato mentre Superman è in volo sopra di loro…

download

Siamo vicinissimi alla fine e sinceramente questo numero conferma le aspettative precedenti. Se è vero che la preannunciata battaglia tra Amazzoni e kandoriani è stata davvero il nucleo dell’episodio, la sua descrizione è stata minimale, con qualche azione suggerita e l’attenzione che un paio di volte torna a Gotham City. Nonostante ciò c’è da dire che il tentativo di richiamare 300 dello stesso Miller funziona grazie alla natura olimpica delle donne di Themyscira e viene esaltata dalla penna di Kubert, il cui operato in questa miniserie andrebbe più che altro visto come un esercizio di stile. Per il resto siamo nella norma: dialoghi scarni, reazioni piatte (specialmente quando Carrie rivede Bruce ringiovanito o quando Wonder Woman, per quanto possa vittima della freddezza da guerriera, incontra Superman), Lara insopportabile come sempre e trama diluita inutilmente. Se avessero unito il precedente albo con questo difficilmente sarebbe cambiato qualcosa, per cui a questo punto ho molti dubbi riguardo il nono numero, aggiunto nel piano soltanto più tardi. Sarà utile? Sarà davvero necessario dopo eventi così dilatati? E fornirà il finale epico promesso? Non penso, ma a questo punto preferisco attendere piuttosto che lanciare dubbi troppo forti o speranze troppo vane. Il minicomic, invece, si mantiene sulla linea citazionista a riviste del precedente, ma porta nuove perplessità. Si descrive il lato criminale della popolazione in subbuglio per i mostruosi avvenimenti, è vero, ma il ritorno di Bruno e, indirettamente, di Joker non basta a giustificarne il nome. Detective Comics è la rivista in cui è nato Batman e attualmente è la sua seconda testata per importanza, così come Action Comics lo è per Superman, quindi perché inserire nella tradizione di questo importantissimo e celebre contenitore di storie la vicenda? Con World’s Finest e Strange Adventures aveva avuto senso, qui invece non è chiarissimo l’obiettivo nemmeno per gli appassionati che sanno cogliere ogni riferimento. Certo, le riflessioni del commissario come eco del vecchio Gordon e i disegni più pacati e tradizionali di Miller sono piacevoli, ma il fumettino resta difficile da inquadrare, soprattutto a livello di continuità nella storia principale; vedremo come si giocheranno le prossime carte, tuttavia, visto che l’intento della DC pare essere quello di realizzare altri capitoli anche senza di Miller, temo come molti che Cavaliere Oscuro III: Razza Suprema potrebbe risultare una miniserie di passaggio per altre. Spero vivamente di no o rischio di rivenderla appena terminata. L’articolo di oggi finisce qui, ci vediamo al prossimo numero… l’ultimo!

Apologia di Reato #2 – Qui continua l’avventura dei Signor Malaventura

Nella puntata precedente (Quei nostri pazzi venerdì…: https://joepicchiblog.wordpress.com/2017/03/26/apologia-di-reato-1-quei-nostri-pazzi-venerdi/), a parte uno dei peggiori cartoni animati della storia, abbiamo avuto il fegato di scomodare ben tre pellicole che nel corso degli anni si sono contese il titolo di Sacro Graal dell’Immondizia! Parentesi tonde, La croce dalle sette pietre e L’uomo puma sono cicatrici indelebili, quindi abbiamo pensato di ricominciare con qualcosa di più leggero. Ma poi, come sempre, tutto è degenerato in titoli sempre più disgustosi… con una bella sorpresa in mezzo. Ricordando che solo dei caprolavori contrassegnati con il segno (*) è consigliata la visione, vi auguro buona lettura: questa è Apologia di Reato!

 

LEGENDA CATEGORIE:

  • Mediocre = da 5-6/10; né imperdibile né evitabile, guardarlo o meno dipende dai gusti
  • B movie = da 5-6/10, talora 7; film a basso budget e senza pretese, mezzo riuscito e d’intrattenimento
  • Film brutto = 5-3/10; in bilico tra un filmetto con qualche errore e un trash pieno di erroracci, non regala nulla se non fastidio, noia o rabbia
  • Z movie/Trash movie involontario = dal 4/10 in giù; film a budget irrisorio repellente sotto ogni aspetto o, in molti casi, blockbuster colmo di fesserie hollywoodiane
  • Z movie/Trash movie volontario = voto non fisso; relizzato in tale maniera o per necessità o per divertimento (vedi Troma), possiede una realizzazione sotto gli standard e trovate impensabili per una qualsiasi produzione di un certo livello
  • So Bad It’s So Good = dal 4-3/10 in giù, talmente brutto e risibile da diventare irresistibile
  • Cult movie = voto non fisso; per quei film che conquistano il cuore di molti appassionati

 

Aria compressa – Soft Air, Italia, 1998, di Claudio Masin

Trash movie involontario

MV5BZGJhYzk5MzItYjgwYS00ZTcwLTgzZDYtMGVkOTYyOTRlYWZkXkEyXkFqcGdeQXVyMzM2NzgzNjM@._V1_UY268_CR2,0,182,268_AL_

Spesso internet rigurgita immondizia dimenticata da tempo. E dobbiamo dire grazie a canali YouTube a tema come Synergo, Stroncando l’Orrore o Yotobi (più a quest’ultimo, nel nostro caso) se io, i miei amici e altri appassionati hanno recuperato dal dimenticatoio in cui era finito Soft Air. O meglio, Soffi Teir, come ci ha insegnato il mitico ridoppiaggio compiuto dagli attori su loro stessi. Da questo tormentone si evince quale sia la peculiarità di Soft Air: una delle peggiori gestioni del sonoro che voi possiate aver mai sentito in tutta la vostra vita. Tutto, dal missaggio alla presa diretta, è completamente sbagliato, senza contare il colpo di grazia inflitto da una tra le tante scelte sbagliate compiute dal regista e interprete del capo dei cattivi Masin (nota: è argentino, non veneziano), cioè affidarsi egoisticamente come doppiatore Glauco Onorato, l’unico vero doppiatore (e che doppiatore!) in mezzo a degli imbranati. Credetemi, sentire “parlare Bud Spencer” in questa pellicola non vi piacerà per niente. E infatti non ci sentiamo di consigliarvi questo film se non per quelle poche clip già presenti su internet con le grandiosi prove espressive e vocali del cast, perché più di tanto non offre… dal punto di visto del pecoreccio, si intende! Vi basti sapere che Masin proviene dalle telenovelas argentine e da La Piovra 4, per cui fotografia, musica e tempistiche puzzano di fiction italiana da un chilometro e la trama (un gruppo di amici viene aggredito da un gruppo di banditi armati mentre stanno giocando, appunto, a softair) parte dopo 34 interminabili minuti! Se questo non vi scoraggia…

Voto: 2/10

 

Nuovo Ordine Mondiale – New World Order, Italia, 2015, dei Ferrara Bros.

Trash movie involontario; film brutto, cult movie

MV5BNDY1MzkyMTE4MV5BMl5BanBnXkFtZTgwMzE3NTIwMDI@._V1_UY268_CR5,0,182,268_AL_

E parlando sempre di egoisti e megalomani, ecco un altro piccolo culto. Ma non perché abbia raccolto una cerchia di appassionati, bensì per la fama che ha cercato di conquistarsi sul web e che ha ottenuto. In senso negativo. I fratelli Ferrara si spartiscono i ruoli (Fabio è direttore della fotografia e co-sceneggiatore, Marco regista, montatore e secondo sceneggiatore e Mario produttore assieme a Marina Pirone ed interprete principale) nella realizzazione di quello che avrebbe dovuto essere, stando alle loro dichiarazioni, la risposta italiana a The Matrix in termini di apertura mentale degli spettatori. E così non è stato. Dopo un risibile trailer nel 2013 del film si persero tracce e notizie, finché effettivamente non venne distribuito (o almeno così penso io) in pochissime sale interessate per poi apparire integralmente su YouTube in almeno tre o quattro forme diverse. Il resto lo fecero i tre nomi noti del cast, cioè Stefania Orlando, Marzio Honorato e, udite udite, Enzo Iacchetti nel ruolo di Ministro della Difesa! E anche noi tre cademmo nel tranello, ma non dovrà accadere mai più, tantomeno a voi. Perché Nuovo Ordine Mondiale, mi si perdoni la volgarità, è una rottura di cog***i dall’inizio alla fine eccetto per l’esilarante e nonsense monologo di apertura. In due ore di film ci saranno una decina di buchi di trama, la recitazione è sopra le righe o inesistente, la regia è pessima quanto il comparto audio (si salva giusto la musica) e il filtro grafico (che hanno osato chiamare “fotografia” nei crediti) è da vomitare. Eppure, nonostante tutto questo ben di dio, il film annoia costantemente e strappa solo due lievi sorrisetti qua e là, specialmente nel goffissimo finale “rocambolesco” e “sconvolgente”. Aggiungeteci il fastidio provocato dal fatto che gli eventi pesano come macigni perché tutte le idiozie complottiste citate vengono prese dannatamente sul serio e capirete perché questo è il film che vi sconsigliamo di più; non il peggiore di sempre, ma sicuramente quello che non riusciremo mai più a rivedere per intero.

Voto: 2/10

 

Il vendicatore tossico, USA, 1984, di Lloyd Kaufman e Michael Herz*

B movie; cult movie

220px-Toxic_avengerposter

Questa invece è stata la sorpresa positiva. La Troma Entertainment, per chi non lo sapesse, è un’azienda fondata da Lloyd Kaufman e Michael Herz che si occupa di produrre e distribuire film di exploitation carichi di splatter, demenzialità e volgarità realizzati apposta in maniera approssimativa, con l’obiettivo di intrattenere e strappare qualche risata in un tripudio del cattivo gusto e del squisitamente becero. E The Toxic Avenger rappresenta in pieno queste caratteristiche, tanto da essere diventato il simbolo stesso della casa. Con pochissimo denaro e tanta fantasia, le folli menti perverse di Kaufman e Herz parodizzano le storie di origini dei supereroi (la caduta del protagonista in un furgone pieno di sostanze radioattive ricorda sia Daredevil che Hulk) e pongono il primo paletto per la costruzione di Tromaville, l’universo in cui è ambientata la maggior parte delle pellicole targate Troma. Ovviamente la regia è ancora acerba e la produzione non permette a scenografia e altre cose di decollare, ma piccole trovate, un soggetto idiota e il tono scanzonato rendono di fatto Il vendicatore tossico un film di culto per tutti gli appassionati del trash e del lato B (o Z, addirittura) degli anni 80. Da questo momento in poi ogni lungometraggio Troma, con qualche sporadica eccezione, seguirà questo esempio, con il conseguente addio alle teen sexy comedies degli anni precedenti. L’ideale per chi vuole approcciarsi ai film della casa di produzione più folle del mondo!

Voto: 6/10

 

Terror Firmer, USA, 1999, di Lloyd Kaufman*

Trash movie volontario; B movie

220px-Poster_of_the_movie_Terror_Firmer

Se The Toxic Avenger è il simbolo della Troma e del suo modo di creare intrattenimento, Terror Firmer, basato sull’autobiografia di Lloyd Kaufman All I Needed to Know About Filmmaking I Learned From The Toxic Avenger, è la summa della sua storia e di tutti i film usciti fino ad allora. E proprio per questo io mi aspettavo di più. Certo, ero consapevole di andare incontro ad un film intenzionalmente (e piacevolmente) brutto, tuttavia mi sono creato delle piccole aspettative che mi hanno reso solo parzialmente soddisfatto. Il discorso metacinematografico, ad esempio, è gestito abbastanza bene e la trama basata sull’autoironia per i continui seguiti del Vendicatore tossico è carina ed ha e con un colpo di scena finale un po’ prevedibile, ma non come ce lo si aspettava. Il fatto è che la regia di Kaufman fino a quel punto aveva avuto una certa evoluzione e quindi credevo che avrebbe reso più movimentate le scene e, sfruttando al meglio il sempre minimo budget, evitato alcune ingenuità del Vendicatore, cosa purtroppo non avvenuta. Le solite trovate tirate fuori dal cappello, invece, riescono a donare un po’ di grinta e colore ai momenti morti e rimango convinto che una sceneggiatura scritta un pochino meglio avrebbe dato molto di più. Perlomeno si vede il divertimento senza troppi impegni nel realizzare il solito dis-gustoso divertissment di Kaufman (qui nell’assurda parte di un regista cieco) e, come recitava il titolo alternativo, One giant Tribute to all Troma films. Qualora abbiate visto qualche altro prodotto simile e voleste  recuperare anche questo, vi raccomandiamo di non fare i perbenisti e di comportarvi come se steste guardando le fesserie di alcuni uomini deviati affetti da sindrome di Peter Pan!

Voto: 6/10

 

Alex l’ariete, Italia, 2000, di Damiano Damiani*

Z movie/Trash movie involontario; So Bad It’s So Good; cult movie

MV5BMmE0MzdmNmEtNjU2OC00ZWI5LWJmZGItYTlkZDM4YzBmYTZiXkEyXkFqcGdeQXVyNTEzNjE4OTI@._V1_UY268_CR3,0,182,268_AL_

E dopo due “viva il divertimento insano” si finì con un “ ridiamo per non piangere”: altro culto made in Italy, altra scemenza senza arte né parte, senza capo né coda. Parliamo del celeberrimo Alex l’ariete, il film che affossò la carriera del compianto Damiano Damiani, regista che ci ha donato quei due indimenticabili spaghetti western che sono Quién sabe? (1966) e Un genio, due compari, un pollo (1975) e pregevoli lavori di denuncia e impegno politico, in primis Il giorno della civetta (1968), trasposizione del capolavoro di Leonardo Sciascia con protagonista Franco Nero. Qui invece pare che ci troviamo davanti non solo a tutt’altro tipo di film, ma anche ad un uomo completamente diverso, un eufemismo per non dire che la regia è anonima, inconsistente, da fiction di quart’ordine come la fotografia, la musica e le tempistiche (e dopo Soft Air si impara a notarlo ovunque, lo schifoso aroma della fiction italiana per le casalinghe di Voghera…). Ma fosse solo quello il problema, fosse solo quello. Già il soggetto, ossia una sorta di rivisitazione dei classici polizietteschi, aveva già dei problemi di base a causa del tramonto del cinema di genere all’italiana negli anni 80 a causa di manierismi non più consoni ai tempi e nonostante la sceneggiatura siano affidate ad un “veterano” come Dardano Sacchetti la trama e il suo svolgimento sono infarcite di scene ridicole e senza senso, riempitivi pesantissimi, stereotipi ambulanti e un pessimo equilibrio tra serietà e situazioni “comiche” (un esempio in questo senso è, strano ma vero, il modo in cui i personaggi parlano ed usano il turpiloquio). Ma allora perché guardarlo, perché dare una possibilità a questo riciclo di un progetto televisivo abbandonato da Mediaset e poi finito nelle mani di Cecchi Gori? La risposta è semplice, in due parole: ALBERTO TOMBA! Quale intruglio chimico abbiano assunto i produttori per assumere un ex sciatore nel ruolo di protagonista non è dato a sapere, fatto sta che la performance è diventata nota in tutta Italia per la goffaggine con cui Tomba si muove, si esprime e cerca di creare complicità con Michelle Hunziker, allora un talento in crescita che tuttavia non lascia il segno, probabilmente per la pessima guida di Damiani. Che per carità, aveva 76 anni durante le riprese, ma se ciò avesse potuto costituire un impedimento egli non avrebbe avuto la possibilità di tirarsi indietro? E non rimane altro da aggiungere se non che l’unico vero fastidio è vedere sprecato un attore di teatro talentuoso come Orso Maria Guerrini (il Baffo negli spot della Birra Moretti), ma tutto è ricompensato da scene indimenticabili come quella del passegino o della finestra e, soprattutto, da tormentoni di siparietti pietosi quali “il risotto con le erbette“, “nooo!“, “fameee” e tanti altri. E non date retta a chi lo definisce “il film […] che ha fatto pentire i fratelli Lumière di aver inventato il cinema” (Luca Bottura, Quel cane “leghista” della Tagli, in l’Unità, 16 dicembre 2002), Alex l’ariete è un caprolavoro che merita il vostro tempo e le vostre risate. Magari non ai livelli di Parentesi tonde, ma fidatevi, va benissimo così!

Voto: 2/10

 

Nota finale: da ora in poi alterneremo un film brutto ad un film bello per variare nella visione settimanale, motivo per cui la rubrica potrebbe procedere più lentamente, ma non temete, puntiamo a mantenerla su un buon livello; forse i film contenuti verranno ridotti a tre per evitare pezzi troppo lunghi, ma è tutto da verificare.

BAT-ANGOLO: Cavaliere Oscuro III: Razza Suprema, #7

A Lorenzo, un amico che a quanto pare ha più pazienza di me

[ATTENZIONE: QUESTO ARTICOLO CONTIENE SPOILER]

Signore e signori, bentornati al Bat-Angolo, l’antro della letteratura disegnata! Oggi parliamo del settimo numero de Il cavaliere oscuro III: Razza suprema, miniserie di 9 numeri scritta da Frank Miller e Brian Azzarello con Andy Kubert ai disegni e Klaus Janson alle chine. Tra consueti ritardi e impegni vari ci stiamo avvicinando (ed era ora) al finale di questa benedetta miniserie! Che poi tanto mini non è, dato che va avanti da un anno e mezzo e l’ultimo numero uscirà in America il 31 maggio. Da noi, purtroppo, le cose potrebbero andare avanti fino a luglio, ma vi prometto che riuscirò a parlarvi anche degli ultimi due albi e a dare un parere sul finale anche in tempo di esami, mentre per un’analisi più dettagliata preferisco aspettare e portarvi ordinatamente tutta la saga di Miller (cosa non molto facile, dato che comprende sia un capolavoro assoluto sia una schifezza apocalittica). Ma diamo tempo al tempo e via con la trama!

Dark_Knight_III_The_Master_Race_Vol_1_7

Nella scena di apertura ritroviamo Superman sfrecciare velocissimo nel cielo assieme a Batman, ormai quasi morto; e mentre a Gotham è appena finita la battaglia anche Carrie viene a sapere della morte del suo mentore. Ciò porta ad un confronto con il commissario Yindel, la quale chiede alla giovane se sia valsa la pena difendere ciò in cui credono i seguaci di Batman, visti i risultati dell’attacco kryptoniano e il numero della vittime. In tutta risposta la ormai nuova Batgirl dice che fornirà alla città un nuovo Batsegnale per restare in contatto. Nel frattempo i kandoriani si stanno riorganizzando e Quar decide di rapire il figlio di Superman, cosa che provoca un piccolo turbamento in Lara. Nel finale, grazie ad una fossa di Lazzaro, Bruce risorge ringiovanito e Clark riesce a tenere a bada i suoi attacchi di pazzia mentre Lara e Wonder Woman si confrontano per la vita del piccolo Jonathan: i kandoriani sono nascosti e pronti per un attacco a sorpresa, ma le Amazzoni sono già sul piede di guerra e pronte a vendere cara la pelle…

Il settimo tie-in si intitola Il cavaliere oscuro presenta: Strange Adventures #1 ed è scritto e disegnato da Frank Miller. In esso seguiamo le traversie di Hal Jordan, la Lanterna Verde, in cerca della sua mano mozzata. Se la trovasse potrebbe tornare ad essere l’eroe di cui l’universo ha bisogno, ma dovrà farlo da solo, sottolinea Hawkboy mentre lo osserva con la sorella Hawkgirl. Salvo poi intervenire per salvargli una vita dopo che egli abbia imparato la lezione e si sia fatto una gran scorta di umiltà.

DKUPSA1

Per godere appieno di ciò che offre quest’albo ho dovuto leggerlo due volte ed è la prima volta che mi capita con un numero di DKIII. Ma attenzione, non è perché esso abbia chissà quali riflessioni o spunti da offrire, semplicemente lo svolgimento è più statico del solito, fino a “paralizzare” azioni ed eventi. E sì che ne accadono di ben rilevanti, qui! La resurrezione di Batman era inevitabile, ma va detto che il “colpo di scena” della fossa di Lazzaro non era affatto prevedibile, pur non essendo innovativo. I detrattori di quest’opera potrebbero argomentare che fosse scontata e che l’imprevedibilità derivi dal fatto che Miller non abbia mai citato prima Ra’s al Ghul all’interno del Dark Knight Universe, tuttavia era la scelta migliore che si potesse fare, anche se “l’imprevisto” della presunta morte di Bruce è stato solo un cliffhanger tra un numero e l’altro (un elemento ricorrente di questo serie e tra i pochi a tenerla in piedi). E alla lista dei momenti “to be continued” si aggiunge la battaglia tra kandoriani e Amazzoni, che a quanto pare costituirà il nucleo dell’ottavo capitolo e l’avvio verso il finale definitivo. Meno convincente la scelta di riportare ancora una volta su mini-fumetto le vicende di Hal Jordan, che in DK2 si era rivelato un personaggio importante per le sorti del mondo e del cosmo intero. Di pregi però non ne mancano, sebbene non così decisivi. Il migliore sicuramente è la caratterizzazione introspettiva di Superman: la paura per la perdita dell’amico Bruce lo riporta con i piedi per terra, lo toglie da qualunque delirio di onnipotenza, lo rende fragile e incapace di sentirsi un dio; in una parola, diventa umano come i suoi simili (e forse anche sua figlia) non riusciranno mai ad essere e, bel parallelismo, lo diventa anche Hal una volta privato dei suoi poteri. In più il tratto di Miller nel mini-fumetto si fa snello e molto vivace, sembra quasi che egli disegni imitando Kubert che emula i suoi marchi di fabbrica (il che fa un effetto straniante, ma bello a vedersi). In definitiva, c’è ancora del potenziale, ma il lato commerciale si sta mangiando tutto, i tempi di pubblicazione finora non hanno giovato per nulla e ormai non resta più tempo per approfondire ciò che stato appena abbozzato. Il ritorno di Atomo è un esempio di tutto ciò: lo intravediamo per una sola pagina, ma nonostante sia evidente che il suo ruolo sarà giocato in extremis l’attenzione del lettore, la mia attenzione, non è stata catturata perché a questo punto ci eravamo quasi scordati di lui. Infine, il titolo del mini-comic conferma ciò che ho detto la volta scorsa: non basta citare certi dettagli che solo un fan accanito può riconoscere per dare tono all’opera. Strange Adventures, infatti, era una rivista di fantascienza pre-Silver Age cominciata con un adattamento del film del 1950 Uomini sulla Luna e proseguita con storie di fantascienza che lanciarono personaggi come Capitan Comet, Star Hawkins, i Cavalieri Atomici, Animal Man e Deadman, la cui prima apparizione fu anche la prima descrizione di droghe a passare la censura del Comics Code Authority. E se la serie classica aveva avuto dalla sua parte autori e disegnatori come Gardner Fox, Neal Adams, Steve Ditko, Carmine Infantino e Gil Kane, nella miniserie revival degli anni Novanta e nel one-shot Vertigo del 2011 figuravano, tra gli altri, proprio Brian Azzarello e Klaus Janson, oltre a un paio di altri disegnatori che hanno firmato le variant cover di questo DKIII. Tutto questo per dire che al pubblico non importa più se ciò è un omaggio alle atmosfere di quella serie o a Gil Kane, il creatore della grafica di Hal Jordan, quando il fumetto serve a poco o è poco/mal contestualizzato nella trama principale, il citazionismo non compenserà la mancanza di spessore e non renderà il tutto più divertente come avrebbe dovuto essere con Il cavaliere oscuro colpisce ancora. Certo, sto lanciando pareri a caldo, forse sommari, e dovrò rileggere la serie nel suo intero per dare un’opinione più seria, ma non posso nascondere la mia incapacità di riprovare le sensazioni che ebbi nel conoscere il fantastico lavoro del maestro. L’articolo di oggi finisce qui, ci vediamo al prossimo numero!

Vai con l’adattamento! (III)

– [ Per la prima parte: https://joepicchiblog.wordpress.com/2016/03/26/vai-con-ladattamento-i/ ] –

– [ Per la seconda parte: https://artificiosarota.com/2017/05/14/vai-con-ladattamento-ii/ ] –

 

c) Televisione

Dopo il cinema, il mezzo con maggiore frequenza di trasposizioni è sicuramente la televisione. Cominciamo con gli adattamenti per la televisione. Come detto non si tratta di un fenomeno limitato, tanto che nel tempo pure i prodotti filmici, dopo quelli letterari, hanno avuto la loro versione a tubo catodico, anche se la maggior parte delle volte si trattava di espansioni dirette a più media di un determinato brand per aumentarne il successo: abbiamo difatti gli illustri esempi de Le avventure del giovane Indiana Jones e di Terminator: The Sarah Connor Chronicles. Gli adattamenti dalla televisione, invece, stanno diminuendo, soprattutto per l’alta qualità che offrono serie di forte stampo cinematografico, quali Breaking Bad o True Detective. Ciò non toglie che in passato vi siano stati numerosi casi, avvenuti perché il nome del prodotto acquistasse una fetta di pubblico maggiore. Anche qui abbiamo due mostri sacri a farci da esempio, ossia Mission: Impossible e Star Trek. Nel primo caso le pellicole con protagonista Tom Cruise sono diventati ancora più famose e redditizie della serie originale, tanto che nel 2015 è uscito il quinto capitolo e un sesto è già in fase di preparazione; nel secondo, tra alti e bassi, esse hanno contribuito a tener vivo il nome della serie e hanno saputo adattarsi ai tempi (vedi il passaggio dalla serie classica a The Next Generation e i reboot degli anni Duemila). Non dimentichiamo inoltre il film per la televisione, caso molto diverso dalle classiche serie e in cui bisogna distinguere tre casi: 1) film originale, ma con dinamiche e mezzi, appunto, televisivi, ad esempio Sei solo, agente Vincent (L.A. Takedown) di Michael Mann; 2) semplice trasposizione che mira ad un audience differente, come potevano esserlo gli sceneggiati della RAI negli anni Cinquanta e Sessanta; 3) un derivato di una serie TV considerabile come un episodio allungato, come Doctor Who: The Movie, tratto dall’omonima serie fantascientifica britannica. E nonostante questi continui incontri tra i due mezzi, le diversità rimangono. La principale è, ovviamente, la tempistica: una stagione dura ben più di un film, che per forza di cosa difficilmente supera le tre ore. Se però la durata di una stagione può essere molto più lunga di un singolo film, quella di un episodio raramente supera l’ora e mezza per ragioni di spazi sul palinsesto. Ciononostante non si tratta di un difetto, anzi, il restare in un preciso lasso di tempo fa sì che gli sceneggiatori e i registi si impegnino per dosare bene parole ed immagini e creare sequenze brevi ma intense, passando quindi da un’analisi (cinema) ad una sintesi (televisione). Varie tematiche, eventi o relazioni tra personaggi possono essere trattati in tempi più lunghi o venir messi da parte per poi essere ripresi nelle stagioni successive. Ovviamente stiamo costruendo un ragionamento generale senza addentrarci nei generi specifici, ma il discorso è comunque sempre applicabile ad ogni tipo di prodotto seriale destinato al piccolo schermo; l’unica vera eccezione sono le serie antologiche come Ai confini della realtà e Black Mirror, dove gli episodi sono autoconclusivi ed è un messaggio o una tematica portante a fare da filo conduttore, oppure American Horror Story, dove sono le stagioni ad avere una trama indipendente una dall’altra ed è il cast a restare invariato con qualche eccezione. La serialità è dunque un vantaggio di cui purtroppo il cinema, pur di costringere gli spettatori a tornare in sala, si sta impadronendo lasciando incomplete determinate vicende di un film o lanciando una serie di interrogativi che verranno risolti nei sequel, prequel, midquel o spin-off. O meglio, che dovrebbero essere risolti, dato che spesso e volentieri se ne aggiungono altri per allungare ulteriormente un franchise oppure, al limite, quelli di partenza sono dei buchi di trama da tappare con un capitolo “reimpitivo”. Un’operazione ingiusta nei confronti di chi paga un biglietto per guardare un determinato prodotto e deve poi aspettare almeno un anno e pagarne un altro per ulteriori chiarimenti, col rischio che non ne sia valsa la pena. Questo non significa che un film non possa gettare una luce diversa su un suo predecessore, ma sicuramente non al punto da pregiudicarne la visione: non è un caso che il settimo episodio di Star Wars, Il risveglio della Forza, o vari passaggi del Marvel Cinematic Universe siano stati criticati per questi motivi mentre ancora oggi Aliens – Scontro finale o Il padrino – Parte II siano osannati come i migliori seguiti della storia. Un’ultima importante differenza su cui si continua ancora oggi a discutere è il target, ossia il tipo di pubblico. Mettendo ancora una volta da parte generi e gusti personali si potrà notare come la televisione, nata per essere alla portata di tutti, miri ad avere un pubblico molto vasto, che comprende ogni genere di persona; e se un programma non è gradito si cambia canale o si spegne l’apparecchio, cosa che al cinema trova una corrispondenza solo nell’alzarsi e andarsene senza essere rimborsati (il che in un certo senso equivale ad un’ammissione di colpa per aver sprecato tempo e denaro). Ciò comporta anche un diverso modo di mostrare le cose: la televisione può essere guardata da chiunque, dall’appassionato di serie TV e cinema all’operaio che torna a casa dopo una dura giornata di lavoro, dal bambino che ha appena finito la scuola ad un anziano pensionato, perciò, anche se cercano di prendere un certo numero di telespettatori interessati e di farlo rimanere tale senza far scendere l’audience o lo fanno crescere con marketing e passaparola, le serie TV devono tener conto del fatto che qualsiasi persona possa arrivare su quel determinato canale e rimanere colpita da ciò che sta vedendo e quindi devono rendere il loro contenuto sicuramente più fruibile di un normale film (sperando, ovviamente, di evitare compromessi artistici e danneggiare la qualità offerta o le idee dei creatori). Il cinema invece è meno soggetto a questi vincoli, è meno incline oggi ad accettare censure ed è già conscio del fatto che la maggior parte degli spettatori in sala saranno coloro che amano quel genere di film, che sono fan di quell’attore o quell’attrice o che pagano il biglietto per passare serata o pomeriggio con qualcosa di emozionante davanti agli occhi. Attenzione, con queste affermazioni non si vuole sminuire il ruolo né tantomeno la qualità dei prodotti televisivi, che, come già detto, possono essere squisitamente d’impatto, si vuole solo sottolineare un fatto, una linea di demarcazione tra questi due potenti media che solo un confronto tra una versione televisiva ed una cinematografico dello stesso soggetto può aiutare a comprendere fino in fondo. A tal proposito si ricordano il già citato Sei solo, agente Vincent e il suo più famoso rifacimento Heat – La sfida, con Al Pacino e Robert De Niro e sempre diretto da Michael Mann, valide esemplificazioni di come non sia soltanto il budget a fare la differenza.

d) Teatro

Il motivo principale per cui un testo teatrale non va messo sullo stesso piano di una qualsiasi altra opera letteraria è il semplice fatto che esso non viene creato né tantomeno pensato per una fruizione privata. Se lo fosse perderebbe innanzitutto la sua capacità di rapportarsi con più di una persona, cioè con un pubblico, inoltre evidenzierebbe l’incapacità dell’autore di creare un contatto tra la parola e l’azione, tra la pagina e il palcoscenico. Scrivere “in modo teatrale” significa immaginarsi un dialogo o un monologo in una scena o in un atto in fieri, mentre si svolgono. Significa rinchiudere in tre mura costruite ad hoc e un’altra immaginaria lo svolgimento della trama, le azioni e le relazioni tra i personaggi e qualsiasi altra cosa possa suscitare il testo. Significa, semplificando brutalmente, tramutare ciò che su carta compare come copione e indicazioni in un’esperienza, anche priva di storia, volendo. Il teatro vive di questo limite spaziale (talora prendendosene gioco con la rottura della quarta parete) perché l’obiettivo è un altro. Certo, anche le scenografie hanno la loro importanza, ma il punto è che il teatro riesce a varcare il suddetto limite spaziale perché si concentra sul tempo, si prende i suoi tempi e può raccontare benissimo un pomeriggio quanto mille anni. È come una scatola nella quale magicamente si trova rinchiuso l’essere umano, con le sue esperienze, le sue emozioni, ecc. E il teatro non “scavalca” il tempo solo in senso figurato, visto che le opere di Shakespeare vengono ancora recitate dopo secoli vivendo di rivisitazioni e riletture. Il cinema a questo punto cosa può fare allora, oltre a rendere più grandi le ambientazioni? Sicuramente può seguire i personaggi più da vicino e sottolineare con le inquadrature determinati comportamenti o pensieri degli attori, concedendo al pubblico una maggiore immedesimazione, di salire su quel palco che fisicamente non potrebbero varcare (anche se determinati testi nascono proprio con l’intenzione di venir sentiti come “estranei” o certi attori e registi scelgono di rappresentarli come tali). Inoltre un film può soffermarsi maggiormente su eventi che il teatro, per sua natura, tende a cassare o a riassumere mediante i dialoghi o monologhi. Il cinema, insomma, è sicuramente in grado di puntare ad una resa più realistica della dimensione spazio-temporale. Ma non è necessario che ciò avvenga. Esistono film che fanno dello spazio teatrale la propria ragion d’essere, sfruttando semplicemente poche location, bravi attori e inquadrature studiate per risultare lo stesso non solo godibili, ma anche molto pregevoli: vi basti guardare qualche film di Hitchcock per capire cosa intendo dire, specialmente Il delitto perfetto e Nodo alla gola. C’è tuttavia il rischio che un film si presti talmente tanto alla dimensione teatrale da risultare fin troppo indulgente e statico, forse per eccessivo zelo nella ricerca di fedeltà al testo o alle sue dinamiche; vedasi il caso dei musical, dove l’attenzione si sposta sulle coreografie, l’esibizione ed un buon montaggio o missaggio sonoro piuttosto che sulla narrazione e, ahimè, sulla recitazione. Ma la cosa è ancora più evidente in film di stampo nettamente teatrale dal soggetto originale, pur essendocene alcuni di notevole pregio e bellezza (primo su tutti American Beauty di Sam Mendes). Nei casi in cui ciò possa accadere bisogna sperare nel talento dello sceneggiatore che costruirà l’adattamento del testo con scene adatte al nuovo mezzo e del regista che dovrà strutturarle. Moltissimi sono i testi teatrali adattati al cinema, anche per vie oblique (Lenny di Bob Fosse è tratto da una pièce di Julian Barry, che a sua volta porta in scena la vita e il pensiero del comico Lenny Bruce), ma l’autore più trasposto resta sicuramente William Shakespeare: si calcola, ad esempio, che al mondo esistano più di duecento versioni filmiche solo di Amleto! Perciò, al fine di capire meglio il discorso fatto finora e come possa variare un adattamento cinematografico di un’opera teatrale a seconda del regista e degli anni in cui viene girato, sono caldamente consigliati i lungometraggi tratti dalle opere del Bardo dell’Avon diretti da Laurence Olivier, Kenneth Branagh e Orson Welles. Oltre alle opere in sé, naturalmente. O qualsiasi altra tragedia, commedia o spettacolo che la nobile arte del teatro ci ha offerto e continuerà ad offrire.