ANALISI #6: Joker

Quattro passi (di danza) verso il delirio: di Joker e altri frustrati

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Bene, dopo aver lasciato passare qualche tempo e aver assorbito varie opinioni, anche le più contrastanti, questo è ciò che ho elaborato su Joker, il film del 2019 di Todd Phillips. Sarà un luuungo sproloquio, pieno di premesse, esempi e parentesi, in cui voglio andare per punti in modo da toccare tutto gli argomenti possibili, riassumibili per me in alcune domande che mi sono fatto prima di entrare in sala e che ho sentito e sentiremo nei prossimi giorni. Magari senza dire nulla di nuovo o brillante, ma perlomeno provando a dare un contributo.

  1. Joker è davvero un capolavoro come molti dicono?

 

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Risposta: non lo so, personalmente non credo, magari dandogli il tempo di crescere… ma importa davvero, poi? Un premio o un titolo in più fanno davvero la differenza nella scala della meritocrazia? A mio avviso no e un Leone d’Oro può, al massimo, conferire più prestigio, non più autorità. Anche perché con 50 milioni di dollari a disposizione hai sicuramente dei limiti nella realizzazione di un capolavoro, che riesci a rifiutare solo se fin dall’inizio ti sei imposto un preciso obiettivo. E quello di Todd Phillips e del co-sceneggiatore Scott Silver (il quale aveva già tratteggiato storie di sobborghi e di affermazione come 8 Mile e The Fighter) non era certo quello di realizzare un capolavoro, bensì un film fatto come si deve, al massimo delle potenzialità offerte da budget e collaboratori, oltre a quello di crederci fino in fondo. Ed è questo ad aver reso Joker un film non solo fatto come si deve, ma eccellente e genuino; e qualora non fosse davvero un capolavoro, ha tutti gli elementi che possono giustificare tali apprezzamenti. Non vengono affatto solo dal nome che porta, sul quale tornerò nel punto successivo. Si tratta invece della profondità della storia a sé stante e dei mezzi usati per esprimerla, tra la colonna sonora dilaniante di X e la fotografia circense di Y. Il risultato è un film che registicamente si contiene, ma per mettere in gioco campi lunghi e medi per poi restringersi su di lui, Arthur Fleck, per farci soffrire con lui. Forse la seconda parte rallenta un poco dopo le continue vicissitudini viste nel primo tempo e certi legami vengono abbozzati come parte della mente sfocata del protagonista, ma si tratta di due gocce fuori posto in un mare di qualità, in cui spicca sicuramente la performance di Joaquin Phoenix, superba nell’unire una metodica preparazione fisica e la sofferenza mentale del personaggio senza risultare manieristico, anzi, in grado di far provare dolore anche solo a guardarlo. Si potrebbe definire il tratto più pop-rock del film, volendo, dato che l’elemento musicale e coreutico diventa sempre più fondamentale man mano che le manifestazioni della follia emergono, sostituendosi alla risata patologica che si manifesta nei momenti di maggior disagio.

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  1. Quanto è fedele al materiale di partenza?

 

Fin dal primo teaser è tornata prepotentemente la questione delle fedeltà in un adattamento, ancora più annosa se si parla di fumetti americani di supereroi e addirittura “pericolosa” quando si parla di Joker, vedere per credere. Ogni volta che viene riscritto o riproposto al cinema file di estimatori o detrattori partono alla carica, chi difendendo la libertà creativa totale e chi incolpando lo scrittore o l’attore di turno di non aver compreso il personaggio. Cosa avvenuta anche qui, perché l’impressione generale era che Phoenix stesse imitando il compianto Heath Ledger e che dai fotogrammi mostrati e dalle dichiarazioni di Phillips (in realtà mal riportate, come traspare da questo articolo: https://cinema.everyeye.it/notizie/todd-philips-smentisce-non-essersi-ispirato-fumetto-joker-399999.html?fbclid=IwAR0mlD0uq6TkI-KNJJdWF7ss-bCc2Et46VLtZML6CA6R9KTJVOELugqnj64) e dei produttori in ambito cinecomic le intenzioni fossero ambigue o poco pertinenti con la storia del Pagliaccio Principe del Crimine. A entrambe le categorie vorrei dire che a tutto c’è un limite e che farsi piacere o dis-piacere un film a priori (andando oltre il giudicare il materiale promozionale e la strategia comunicativa, operazione invece più che legittima) è da sciocchi. Ovviamente sono solo le mie opinioni, ma tenterò di argomentare. E comincerò con l’essere il più onesto possibile dicendo che, da purista quale sono, sono cascato anch’io nei giudizi a priori, partendo prima scettico, poi stemperando nel dubbio e infine godendomi il film senza pregiudizi, come d’altronde ho sempre fatto anche quando partivo più che entusiasta e bendisposto. Sono uno che apprezza molto rivedere su schermo e ampliato ciò che ha letto, ma non al punto da castrare la libertà di voler rimaneggiare il materiale originale, altrimenti tra i miei film preferiti non ci sarebbe, per fare un banale esempio, Blade Runner, ma nemmeno Quei bravi ragazzi, a ben vedere.

Già la scelta di trasporre X piuttosto che Y è una scelta e come tale, anche se sciocca o fatta per puro denaro, va rispettata, andando poi a criticare soltanto il risultato finale. E in tale critica il confronto libro-film o fumetto-film si può anche fare, ma in maniera intelligente, sensata. Come mi piace ripetere, la fedeltà non è un metro qualitativo e se lo diventa significa che il progetto era sbagliato a priori. Se da una parte capisco il diritto di un autore di riplasmare con la sua visione estetica un prodotto che gli interessa e dire la sua sperimentando e giocando con le aspettative, dall’altra capisco anche la paura di vedere ciò che si ama banalizzato, utilizzato come vuoto contenitore o addirittura specchietto per le allodole (per quanto nell’informatizzato 2019 ciò sia ancora possibile) senza alcun rispetto verso il creatore primo. Infatti sarei il primo ad utilizzare le espressioni “ispirato a“, “tratto da” o “liberamente ispirato a” con più cautela e onestà intellettuale, ma purtroppo non dipende da me. In ogni caso, non siamo davanti ad una gara con la carta da lucido, dove vince chi, letteralmente, ricalca meglio: un valido artista che vuol dipingere nature morte non perde tempo a ricopiare un Caravaggio, ma a trovare la sensibilità giusta per una variazione sul tema. Allo stesso modo fanno registi e sceneggiatori, quindi la fedeltà è, la massimo, un valore aggiunto, un arricchimento, specie se fine e sottile. Se invece un film non è fedele, a mio avviso chi “tradisce” deve ricompensare con qualcos’altro, altrimenti non ha senso e rischia di impoverire ciò da cui ha tratto spunto; se poi le differenze risultano addirittura migliori o più sensate di idee che su carta erano mal gestite o non possibili da rendere su schermo, allora tanto di cappello. Inoltre, per affrontare meglio le tematiche, si presuppone che chi vi lavora non agisca per sentito dire, ma conosca ciò a cui mette mano, altrimenti si arriverebbe davvero al caso di Hitman del 2007, dove ad una storia priva di valore sono stati appiccicati il nome di un brand videoludico e i tratti fisici più celebri del protagonista senza alcuna motivazione logica (travisare però, attenzione, è un’altra cosa ancora e pure più complicata).

 

Premettendo questo e che, a mio modesto parere, l’affermazione “il personaggio è talmente libero e indefinito che puoi farne quello che vuoi” è una fesseria pericolosa (vero, Pushback?), bisogna chiedersi, come sarebbe opportuno, chi è il Joker? Quali sono le caratteristiche che lo contraddistinguono da altri folli, che lo rendono unico e dovrebbero essere sempre, quantomeno, tenute in considerazione? Mi tocca aprire una noiosa parentesi storica, che però tornerà utile. Joker nasce, graficamente, nel 1940 partendo dal giullare del jolly nelle carte da gioco e dal viso di Conrad Veidt nel film muto L’uomo che ride del 1928. Da questo, anzi, dal romanzo di Victor Hugo viene velatamente ripreso, anche se mai approfondito per molto tempo, il concetto dell’uomo dal sorriso imposto come uno sfregio, di una risata che nasconde tristezza e oscurità. Per questioni editoriali lo spietato criminale dal ghigno malvagio rimane una bozza e si trasforma in un semplice buffone sopra le righe dai gadget stravaganti, visione portata avanti dalla serie del ’66 con Adam West e oggi mantenuta per i tratti più comici nella caratterizzazione. Ciò che rimane costante sono la pelle pallida, i capelli verdi (prima scuri, poi chiari), l’abbigliamento viola elegante con camicie verdi, arancioni o azzurre e, soprattutto, l’aura di mistero data dalla mancanza di un’origine definita, che sicuramente nella ridicolaggine dei Sixties è semplicemente non necessaria; nel 1951 X e Y prova a dargliene una nella storia L’uomo sotto il Cappuccio Rosso!, da Detective Comics #168, ma non ottiene alcun impatto. Negli anni 70 torna l’assassino sadico degli inizi grazie ai duo Dennis O’Neil-Neal Adams e Steve Englehart-Marshall Rogers, mentre nel 1988 Alan Moore e Brian Bolland riprendono L’uomo sotto il Cappuccio Rosso! per creare l’origine più bella mai scritta con Batman: The Killing Joke, dove si solidifica quella filosofia di fondo presente anche nel Comico di Watchmen che è rimasta radicata nel personaggio per sempre. In breve, tenendo conto di questo e delle molteplici versioni del personaggio (discorso valido anche per Batman come per qualsiasi personaggio del fumetto seriale americano di supereroi), non esiste il Joker definitivo, ma senza dubbio Moore e Bolland hanno realizzato la summa e insieme l’apice di tutte le caratteristiche che possiamo attribuirgli, allargata semmai da Grant Morrison nella graphic novel Arkham Asylum: Una seria casa su un serio suolo e nella sua run tra il 2006 e il 2011 e da davvero pochi altri scrittori; è così da ormai trent’anni e da lì non si può scappare.

E sulla base di tutto questo preambolo rispondo alla domanda iniziale dicendo che per me Joker è molto più che fedele, va oltre. Le sue radici non stanno nel voler rielaborare le origini di uno dei più grandi villain conosciuti, nel “rischio” di realizzare l’ennesimo cinecomic, al contrario, durante la campagna di marketing si è scelto di distogliere l’attenzione da questo e portarla verso la sua frangia più autoriale (se per convincere le giurie ai festival non importa, è pur sempre pubblicità e il lato commerciale di un prodotto). Allo stesso tempo Joker non è un nome incollato con lo sputo, ma una serie di caratteristiche stratificate al cui nocciolo rimane comunque Arthur Fleck, una persona autonoma e indipendente dall’identità che assumerà. Ergo il Joker che vediamo ha un nome e un cognome, lo conosciamo quasi in tutto e viene messo da parte il mistero dell’origine ignota (che in The Killing Joke portava il pubblico ad identificarsi meglio con lui per poi, forse, ripudiarlo), eppure non rinunciamo ad osservarne per due ore moventi e involuzione. Perché? Perché il soggetto parte da altre fonti e ispirazioni, come i film di Scorsese, per incontrare la parabola discendente del criminale, operando un discorso sull’icona Joker come mai era stato fatto prima. Se fosse un Elseworlds, un what if che deraglia dal canone per uno o più dettagli, la premessa di Joker potrebbe essere: “Cosa succederebbe se Gotham City fosse lo specchio delle situazioni sociali delle metropoli, del 1981 come di oggi, e le vicende di un suo normalissimo cittadino della classe meno abbiente si intrecciassero, in maniera verisimile e realistica, con quelle dinamiche che hanno portato lo sconosciuto dei fumetti a diventare il Joker?” È da quel nullatenente che sono partiti Phillips e Silver, dal suo disturbo, dalla sua risata compulsiva, dalla sua situazione economica e familiare e dal contesto che lo ha generato, in tutti i sensi; non si tratta quindi del Joker di un fumetto specifico o della continuity ufficiale, ha detto Phillips (nessuna versione filmica lo è mai stata), e non si porta dietro l’attributo di nemesi di Batman… almeno non apertamente. “Tralasciare” Batman rendendo Arthur protagonista assoluto rientra tra le regole imposte dal contesto realistico, esattamente come nella Dark Knight Trilogy di Christopher Nolan veniva limato il lato più fumettoso del tutto: Arthur non è un Joker, lo diventa assumendone letteralmente i panni e l’appellativo e quindi il percorso è soltanto suo, con tutti i rimandi ai fumetti ad abbellirlo e/o rafforzarlo. Sarebbe inutile dilungarsi a spiegare quali siano e quanto brillantemente vengano usati (cosa che farò nei prossimi giorni), fatto sta che nella Gotham del 1981 qui presentata non c’è spazio per gli eroi, solo per figure umane, antieroiche e prossime alla pazzia, velata o meno. Non sarebbe stato un problema se non ci fossero state, dato che il film ripaga con molto altro, ma Phillips sapeva che potenziale aveva in mano e ha deciso di usarlo per bene.

  1. Gotham è anch’essa un nome appiccicato? Oppure si tratta di un contesto concreto?

Ho citato gli Elseworlds e i what if non a caso. Tra il 4 ottobre del 2017, anno in cui Phillips e Silver scrissero la sceneggiatura, e il 9 maggio 2018, quattro mesi prima dell’inizio delle riprese, uscì la miniserie Batman: Cavaliere bianco, scritta e disegnata da Sean Murphy con colori di Matt Hollingsworth, la quale condivide certi aspetti di Joker, specie le riflessioni sulla cittadinanza di Gotham. Ad ogni modo, fu un progetto di grande successo che diede il via in maniera non ufficiale alla linea editoriale DC Black Label, erede degli Elseworlds ma con l’intento di raccogliere i migliori artisti e sceneggiatori e permettere loro di dar vita a storie mature, fuori continuity, per un pubblico adulto e dai toni forti e disturbanti (d’altro canto una delle cose che fece più scalpore del primo numero di Batman: Dannato, primo titolo ufficiale dell’etichetta, fu il fatto che in una tavola si intravedesse il pene di Batman). Questo avrà sicuramente dato linfa al film in quanto la Warner, vedendo il successo della nuova etichetta, potrebbe aver capito che porre il film su quella stessa linea, magari con progetti simili che in futuro non intaccheranno il canone, non sarebbe stato una cattiva idea. E così è stato, con una Gotham City riletta appositamente.

Se Arthur Fleck si “appropria” di Joker e non il contrario, allo stesso modo sono l’idea di metropoli degradata ad impadronirsi di Gotham in modo che quest’ultima non risulti invasiva e non riporti costantemente alla mente il mondo batmaniano. Il manicomio di Arkham, per esempio, diventa l’ospedale cittadino e viene nominato soltanto due volte, al punto che lo spettatore nemmeno ci fa caso, così come non fa caso all’innominato maggiordomo di Villa Wayne, che è senza dubbio Alfred. L’unico nome importante è Thomas Wayne, magnate molto meno filantropo di come ce lo ricordavamo, ma anche in quel caso e nell’origine di Batman rimasta intatta, si parla di conseguenze, il focus principale è altrove.

 

È infatti e comunque la solita Gotham che conosciamo, torbida, marcia dentro per natura, con un netto distacco tra centro e periferia e una serie di conflitti sociali irrisolti, pronti a generare criminali che si ergono sopra quelli comuni. Ciò non esclude che faccia proprie, appunto, le città dei primi anni ottanta e quindi figlie dei mutamenti sociali dei settanta (qui va detto che il dato temporale è più artistico che concreto, ma probabilmente è una scelta per rendere il più a-temporale possibile anche questa Gotham), semplicemente i pochi elementi ricorrenti del paesaggio urbano ruotano tutti attorno al microverso (mentale) di Arthur piazzati nel macroverso di Gotham, inquadrato con un campo lunghissimo soltanto una volta seguendo la metropolitana che collega due universi separati unicamente dal ceto e dal censo.

Da segnalare che, Thomas Wayne a parte, l’unico illustre cittadino di cui si parla è il conduttore di late show Murray Franklin, il cui spettacolo rassicurante inebetisce persone come Penny Fleck e si mette al servizio del potere che governa la città come il resto dei mass media; tutti gli altri sono semi-sconosciuti comprimari di Arthur, nella sua stessa condizione economica e che gli ruotano attorno. Non solo: se la gestione dei beni e delle risorse è così scellerata, un atto come la rivolta di tanti anonimi pronti a farsi giustizia dietro una maschera (ricorda forse qualche uomo travestito da topo volante?) è inevitabile e una schiera di seguaci indica che potenzialmente ciascuno di quei violenti avrebbe potuto osare quel tanto in più che basta per essere il Joker. Siamo in una situazione simile al consumismo dilagante e alienante di Fight Club, dove è un piano fuori di testa come quello di Tyler Durden a smuovere la situazione. Ciò non rende Joker un’idea astratta e che, condivisa da tutti, rischia di smussare l’unicità di Arthur, semplicemente mostra l’uomo per quello che è in un contesto pari a quello gothamita: un’arancia meccanica, pronta a scattare e distribuire violenza.

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  1. Vi sono riflessioni socio-politiche dovute anche al contesto, il 1981: come sono?

Continuando sulla popolazione di Gotham, non si può non parlare delle insinuazioni socio-politiche, visibili e invisibili a quanto pare, poiché c’è chi le ha trovate fin troppo preponderanti chi banali o addirittura inesistenti. Io ammetto di non averci dato troppo peso, non credo che il film vada in quell’unica direzione, ma siccome è figlio anche di Taxi Driver è evidente che vi siano dei rimandi all’analisi sociale. Come Travis Bickle, infatti, Arthur trova nell’omicidio l’affermazione di sé, i suoi quindici minuti di fama, il fungere da esempio per qualcun altro e un esorcismo che sprigiona i suoi demoni. Con tutte le differenze del caso, però: Travis soffriva di disturbo da stress post-traumatico in quanto veterano del Vietnam, ergo ha presumibilmente già ucciso qualcuno in guerra e la strage avviene solo alla fine, con un probabile ritorno al punto di partenza. Arthur è invece immacolato, non ha mai fatto del male a nessuno e non riesce comunque ad emergere come individuo sia per via della malattia e della povertà in cui si trova, in quanto i lavori che può fare sono decisamente meno redditizi del guidare un taxi. Non sarebbe solitario come Travis, ma la compagnia di una madre del genere crea per lui solo un divario tra il piccolo falso paradiso casalingo e l’inferno del mondo esterno che non lo considera minimamente, per cui malessere e indebolimento fisico non possono che aggravarsi e qui il collegamento, assieme all’ammirazione per un commediante già affermato, va allo svitato Rupert Pupkin di Re per una notte.

Un unico crimine, compiuto per puro istinto, lo rende qualcuno per quelle stesse persone che, fino ad un giorno prima, lo picchiavano e lo denigravano. A patto però che resti anonimo: dapprima infatti le conseguenze sono puramente personali, un senso di ritrovata intraprendenza e un pretesto per cominciare a trasformarsi nell’artista che egli vorrebbe essere. Il triplice assassinio è per lui solo l’inizio di una situazione che peggiorerà dal momento in cui smette di assumere farmaci fino al one bad day in cui tutto il mondo gli crolla addosso e all’attimo in cui deciderà, non per fama e non per alimentare il suo mito, di liberarsi del suo passato e reinventare sé stesso in una figura nuova che, stavolta, dia libero spazio ai suoi pensieri, istinti e desideri. In questo richiama sia Travis che la parabola di Pupkin ed effettivamente Arhur, anzi, Joker sarà re per una notte, la più importante della storia di Gotham sia in quel contesto che in ogni fumetto. Travis, tuttavia, riusciva a creare un minimo di empatia e partecipazione, mentre so che con Arthur per qualcuno non c’è stato, evidentemente perché, per quanto sofferente e triste, è fin troppo disturbato/disturbante per noi, come del resto dovrebbe essere il Joker, il cui superpotere, nei fumetti, è ricreare la propria psiche e i propri disturbi per eludere anche i più esperti. Riusciamo a capire Arthur, ma non ad avvicinarci a lui tanto quanto riusciremmo a fare con Travis, in quanto il mostro che vive dentro di lui lo ha segnato da sempre ed ogni tentativo di salvare la sua figura è inutile.

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Nel momento in cui scopre le proprie origini, apprende che il suo idolo (una sorta di riproposizione, assieme a Wayne, del politico di Taxi Driver) ha riso di lui invece che fargli da padre-mentore distruggendo il suo sogno di diventare uno stand-up comedian dopo gli ultimi tentativi di restare un clown nei reparti di oncologia infantile (in fondo l’unico modo in cui veramente riusciva a portare un po’ di felicità a chi ne aveva bisogno) e si rende conto che il suo amore era una costruzione mentale (come molti altri dettagli, data la sua prospettiva da narratore inaffidabile spesso ostica), egli scorge il non-senso della vita e prende la decisione di crearne uno suicidandosi con un gran finale in diretta, salvo poi cavalcare l’onda della rivolta dei clown da lui scatenata e agire senza modus operandi liberandosi dell’ultimo appiglio al proprio passato, ossia Franklin, il quale non è per nulla in grado di riportarlo dalla parte della ragione. Ad Arthur non importava di cosa significasse per gli altri il suo operato e nulla gli importa ora: il consenso delle masse e la sua celebrazione da messia per degli atti orribili sono la più alta forma di compensazione per il proprio ego, in un sistema che aveva ignorato le cause che avrebbero portato il caos e che in quel momento non può far altro che assistere impotente alle conseguenze.

Ipocriti i benestanti che avevano ignorato il problema o l’hanno causato promettendo di risolverlo per tranquillizzare i potenziali elettori, e ipocriti i ceti inferiori, pronti a scannarsi tra loro eleggendo come loro eroe un giustiziere qualsiasi che ha semplicemente avuto il coraggio, per via di un male che da sempre lo possedeva e per cui lo avevano deriso, di compiere gesti estremi che nessuno si sarebbe mai sognato di fare. “Uno Stato non è migliore di chi lo governa“, scriveva 50 anni fa Philip K. Dick ne La svastica sul sole e qui si ripete il concetto facendo leva sulla responsabilità di tutti nell’occasione sprecata di costruire un mondo migliore: l’ambiente ci forma e il prodotto di un ambiente corrotto da cima a fondo non può che essere la risposta generata e simboleggiata da Joker e proprio perché ciascuno è messo davanti a delle scelte nella vita la responsabilità di tali avvenimenti è sempre di tanti singoli, da Arthur a Franklin, da Thomas al delinquente che lo uccide. Considerazioni già affrontate in passato, per esempio dal Il ritorno del Cavaliere Oscuro nel 1986 assieme a Watchmen, ma qui rielaborate mettendo al centro questa figura mitica come un cattivo che è fin da The Killing Joke millanta di essere solo il figlio di un mondo crudele e non del proprio agire per rafforzare il concetto. Non proprio banale, specie se teniamo conto che ogni opera, al di là dell’ambientazione, riflette i propri tempi e Joker questo lo fa bene, come ha sottolineato Michael Moore invitando ad andare a vederlo (https://cinema.everyeye.it/notizie/michael-moore-joker-tood-phillips-capolavoro-dovremmo-guardare-tutti-403715.html), pur non vedendoci una  responsabilità individuale che invece c’è e deve esserci (https://cinema.everyeye.it/articoli/speciale-parliamo-finale-joker-todd-phillips-verita-fantasia-45618.html): seguite lo stesso il consiglio!

  1. Si tratta di una origin story originale sul/grazie al personaggio o Phillips si dimostra troppo debitore di Scorsese?

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Oltre al già citato Taxi Driver, Phillips ha dichiarato di aver preso integrato le storie su Joker degli anni settanta con altri film scorsesiani e della Nuova Hollywood appartenenti a quel decennio e alle atmosfere successive, quindi Re per una notte e, in parte, Fuori orario, ma anche Qualcuno volò sul nido del cuculo e racconti metropolitani come Il braccio violento della legge, Arancia meccanica, Quel pomeriggio di un giorno da cani, Cane di paglia, Serpico e vari altri. Questo allora rende il film, de facto, non del tutto originale nel senso di innovativo e completamente ideato da Phillips, ma sinceramente, sebbene i parallelismi con le prime due pellicole di Scorsese citate siano molto forti, ho trovato questo meccanismo per nulla tendente alla copia sbiadita o al plagio, bensì, come altri hanno già fatto notare, un felice ritorno al passato perché necessario: così come il contesto degli anni settanta ha generato i film della Nuova Hollywood, così il desolante panorama odierno ha richiesto un uso del loro stile in campo cinecomic per imprimere la forza a rendere la storia di Artur tutt’uno col mondo in cui vive, una Gotham del 1981, di passaggio tra un decennio pieno di problemi per gli USA ad un altro altrettanto problematico, potenzialmente ricco e pieno di ricordi felici ma soffocato dalle luci soffuse al neon, dal merchandise, dall’inebetimento delle masse, da Reagan, dagli yuppie figli di papà e dai magnati rappresentati in Wall Street di Oliver Stone e imitatori di Donald Trump (che guarda caso è l’attuale Presidente degli Stati Uniti). Un procedimento simile è già stato utilizzato proprio da Batman: Cavaliere bianco, che raccoglieva i pezzi di Burton (il Joker si chiama Jack Napier) e del suo erede diretto, l’universo animato di Bruce Timm e Paul Dini, per contaminarlo con l’estetica del fumetto e dei film di Christopher Nolan (lo si vede molto bene nelle macchine, veri gioielli della meccanica nelle matite di Murphy). E anche allora ci fu chi parlò di “già visto” e “prevedibile“. Il che era pure vero! Ma la serie ottenne comunque un buon responso critico oltre che di pubblico, tanto che or ora Murphy sta pubblicando il seguito e pensando ad un terzo volume. Questo perché le variazioni dovute al mix personalissimo delle citazioni e al tocco molto giovane portano il soggetto in una direzione nuova, mai intrapresa prima, se ci si pensa, e mettendo la parola fine, per quanto mi riguarda, al binomio Batman-Joker.

Lo stesso accade qui, unendo Cavaliere bianco a Il ritorno del Cavaliere Oscuro (rendendo però Joker mattatore). Nel primo Joker si erge a paladino delle classi disagiate e smaschera l’ipocrisia di Batman e del suo credo per sostituirsi a lui in maniera completamente legale diventando il nuovo volto politico di Gotham. Il secondo presentava un elemento politico, seppur incentrato sulle reazioni della cittadinanza al ritorno di  Batman, e la presentazione di Joker come un uomo che non può vivere senza Batman e, al contempo, un fenomeno da baraccone da esporre nei talk show. Tutto questo viene recuperato e al contempo Phillips e Silver se ne distanziano, sia perché, appunto, il film passa da Il ritorno del Cavaliere Oscuro e L’arrivo del Clown Oscuro, per così dire, sia perché ad Arthur non importa del movimento da lui smosso se non nel finale e per pura gratificazione egocentrica. Il senso di giustizia e di voler far andare le cose come dovrebbero rimane nelle mani degli spettatori, incapaci di entrare dentro lo schermo e dare ad Arthur l’unica cosa che sarebbe servita a evitare tutto questo e permettergli di guarire e ricominciare: non i soldi, non un lavoro, non il prestigio, soltanto qualcuno capace di amarlo come un amico, un fratello, un padre, qualcuno che invece di passare dal distruggerlo all’acclamarlo per dare sfogo alle proprie frustrazioni fosse stato in grado di sedersi accanto a lui, capire la sofferenza dietro quella risata acuta e soffocata per abbracciarlo e far sparire il male dentro di lui. Ma come detto prima siamo a Gotham e tutto questo non è possibile. Come forse potrebbe non essere possibile il colpo di genio messo in coda, vale a dire il riferimento alla nascita di Batman. E non mi riferisco soltanto al fatto che certe cose potrebbero essere frutto della mente malata di Arthur, altrimenti si potrebbero aprire varianti e interpretazioni fino a farle apparire come dietrologie forzate. Mi riferisco invece all’azione vera e propria: riprendendo l’”Io ho fatto te. Tu facesti me, prima” di burtoniana memoria con Thomas Wayne al posto di Bruce, Joker si ricollega anche al mito classico: i due sarebbero il frutto della medesima città, ma di diversi contesti sociali, qui la vicinanza è invece tangibile, in quanto Thomas non ha fatto nulla per impedire l’ascesa di, anzi, dei Joker e di conseguenza la sua morte è inevitabile, ma quanto è certo che in quel contesto malvagio il piccolo Bruce abbia la forza di rialzarsi, giurare vendetta al Pagliaccio e intraprendere la crociata da incappucciato? Siamo sicuri che Bruce, che al posto di Joker ha perso tutto, capisca come veicolare quell’insopportabile sofferenza? Non lo sappiamo ed è qui, oltre all’emblematica scena finale che “annulla” la barzelletta mortale facendola diventare un’altra morte concreta e si lancia in un The End classicheggiante quanto stridente con il freddo corridoio imbrattato di sangue, che risiede il rispetto per il materiale di partenza in ogni modo per poter esprimere qualcosa sì di non superlativo, ma sentito, forte e pure condivisibile, come la storia di Arthur.

 

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E spendiamo ancora due parole su di lui. Perché, appunto, questa origin story non sarà la più cervellotica, impegnata e complessa di tutte, ma arriva diretta e secca come un gancio destro, fa male e raggiunge gli obiettivi prefissati, compiendo inoltre, come Cavaliere bianco, un’altra summa dopo quella di The Killing Joke, vale a dire quella di tutte le varianti più importanti del personaggio viste fino ad oggi, in ogni ambito, in ogni media. Da Ledger a Romero, dai fumetti ai cartoni animati, questo è il riassunto che Phillips e Silver hanno raccolto sui dati per loro più adatti da affibbiare a Fleck e ad essere inseriti in una trama in bilico tra Taxi Driver e Re per una notte, tra introspezione e tragicommedia; non sono un banale plus, ma come nei film di Burton fanno da valore aggiunto potenziando la storia, la valorizzano e da essa vengono valorizzati. Il personaggio Arthur ci guadagna ad indossare trucco e vesti del Joker, così come il personaggio originale e la ricca mitologia di Gotham City nell’accoglierlo tra le loro fila. Non era stato mai fatto prima un discorso simile sull’icona e il “titolo” di Joker e probabilmente bisognerà aspettare ancora molto per vederne un altro. Nel frattempo abbiamo Arthur Fleck, un autentico nessuno che emergerà solo grazie alla sua malattia, incontinenza emotiva o effetto pseudobulbare (PBA), una variante della cosiddetta emotional lability ancora senza cura e che può essere una condizione secondarie di tremendi mali quali sclerosi multipla, SLA, Parkinson, ictus, disturbo da deficit di attenzione/iperattività e, come parrebbe nel caso di Arthur, depressione o trauma cranico. Questo il suo attributo da uomo che ride e legame con Joker prima della trasformazione assieme al nome. Arthur è un nome comune, mentre il cognome invece è decisamente interessante: fleck è infatti un termine esistente e indicato sui dizionari inglesi come little spot, ossia una traduzione letterale di macchietta, altrimenti mantenuto inalterato in lingua anglosassone. Nome omen, dunque, come Pupkin ricordava pumpkin, zucca. Di più, un cognome attributo, che Arthur rifiuta in quanto vuole cambiare e non essere una personalità piatta fino alla fine della sua esistenza e completerà il percorso rinunciando al proprio nome per sceglierne uno più eloquente e in realtà attributo affibbiatogli da Franklin per prenderlo in giro, anche se pure su questo incombe il velo dell’incertezza. E quindi joker, come la carta da gioco, ma anche come barzellettiere, sempre in senso dispregiativo. Tutto questo è davvero significativo in quanto Arthur sceglie volontariamente di adottare un nome canzonatorio, forse perché non crede fino in fondo al materiale che vuole portare in scena, suicidio compreso o forse perché si ritiene in grado di raccontare la vera grande barzelletta che accomuna lui agli altri: la vita. Ma egli, come il Joker dei fumetti, è un individuo e come tale unico nel suo genere, solo le sue condizioni mentali hanno permesso che venisse alla luce tutto il suo lato nascosto e cattivo e non tutti sono necessariamente come lui: glielo diceva Batman verso il finale di The Killing Joke e glielo ripete, con intento diverso, Franklin, i rappresentanti/difensori del sistema che combatte, che usa come scusante per ciò che è diventato e di cui rifiuta gli pseudo-valori che hanno comportato il suo declino, dando infine a Batman una battuta per riflettere sul loro legame perpetuo e al conduttore ciò che si merita.

Un racconto triste e struggente che riassumerei non solo con Smile di Charlie Chaplin nella versione di Jimmy Durante o con Laughing dei The Guess Who, che accompagnava il breve test footage di Phoenix in costume, ma anche con un’altra canzone che mi è venuta in mente appena terminata la visione: I Started a Joke dei Bee Gees, che tra l’altro avevamo già ascoltato nella cover ConfidentialMX con voce di Becky Hanson nel trailer di Suicide Squad presentato al Comic-Con di San Diego del 2015 (qui la canzone originale: https://www.youtube.com/watch?v=4ZWKR2zJESk).

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I started a joke which started the whole world crying

But I didn’t see that the joke was on me, oh no

I started to cry which started the whole world laughing

Oh if I’d only seen that the joke was on me

Traduzione: Ho iniziato una barzelletta, cosa che ha iniziato a far piangere il mondo intero / Ma non mi sono accorto che la barzelletta era su di me, oh no / Ho iniziato a piangere, cosa che ha iniziato a far ridere il mondo intero / Oh se solo mi fossi accorto che la barzelletta era su di me.

La prima strofa (o prime due strofe distiche, non intermezzate da ritornelli nella semplicità della melodia) mostrano uno scambio di azioni e reazioni. Il protagonista del brano racconta una battuta sciocca o triste per cui il suo pubblico piange (di delusione?) invece di ridere: qualunque cosa abbia detto scherzosamente si è ritorta contro di lui e quindi the joke’s on me, vale a dire mi son fatto ridere dietro, ci ho fatto la figura del babbeo; lo stesso dopo che il nostro ci è rimasto male, poiché la goffaggine del momento causa l’ilarità generale, evitabile se si fosse accorto prima di poter fare una figura imbarazzante. Altrettanto legittima, seppur più articolata, l’interpretazione letterale del modo di dire: la battuta riguarda personalmente il suddetto protagonista, è una parte della sua vita e il suo audience si mette a singhiozzare per compassione (o per disapprovare il tema scelto?) senza riuscire a scherzarci sopra, mentre quando egli, accortosi dell’assurdità della situazione o che la battuta lo riguardava da vicino, capisce che non c’era nulla da ridere concludendo con un pianto liberatorio per seguire quello del pubblico, che invece lo rigetta iniziando sì a ridere, ma di lui. Il sale negli occhi altrui è collirio per i nostri, si dice, e dato che il meccanismo comico nasce da situazioni di danno o sconvenienti la gente è spesso portata a ridere delle disgrazie del prossimo, che la prenda con ironia o meno; in questo caso il protagonista è addirittura alienato, ogni cosa che fa, anzi, inizia a fare, ottiene l’effetto posto. Perciò, che si scelga una o l’altra versione, resta il fatto che si rovini da solo, consapevole o meno del rischio all’inizio.

I looked at the skies running my hands over my eyes

And I fell out of bed hurting my head from things that I said

‘Till I finally died which started the whole world living

Oh if I’d only seen that the joke was on me

Traduzione: Ho guardato verso il cielo passandomi le mani sgli occhi / E sono caduto dal letto ferendomi la testa per le cose che dicevo / Finché alla fine sono morto, cosa che ha iniziato a far vivere il mondo intero / Oh se solo mi fossi accorto che la barzelletta era su di me

Quest’ultima strofa, contenente il bridge e ripetuta due volte, conclude malinconicamente il pezzo. Il protagonista, disperato e isolato per il suo errore, osserva stralunato il mondo attorno a sé, quasi fosse in un sogno e non ritenesse possibile ciò che gli sta capitando, per poi, appunto, tornare alla triste realtà. Dal cielo nessun segnale miracoloso, il risveglio crea solo altro dolore perché porta con sé i pensieri negativi, ripensamenti su ciò che ha fatto e su cosa avrebbe dovuto fare che lo scuotono nel profondo e ampliano la sua tristezza. La voce principale, Robin Gibb, è infatti forte e squillante in questo punto, come se volesse imitare il protagonista che urla a vuoto la propria miseria. Da paradossale la situazione si è fatta opprimente e l’unico atto compiuto, non frequentativo, che egli può compiere è morire, azione a cui il mondo intero risponde cominciando a vivere: qualunque fosse la battuta o il gesto che gli ha procurato quei quindici minuti di notorietà, dopo la breve interruzione la vita torna a scorrere nella propria routine, senza preoccuparsi ovviamente se quell’individuo, così piccolo e insignificante rispetto alla comunità, contasse qualcosa.

Molti l’hanno interpretata in modo meno drastico, addirittura come un cammino spirituale alla ricerca della verità e dell’annullamento del proprio ego, ma poco importa qui, poiché è di Arthur/Joker che parliamo: non riesce ad attrarre simpatie, né viene preso sul serio, ergo il tessuto urbano, dedito solo a non sfaldarsi, lo ignora e lo opprime innescando i meccanismi che lo faranno impazzire completamente; guarda un’ultima volta a sogni e aspirazioni per poi accorgersi che ogni cosa da lui letteralmente sognata era mera illusione se non un incubo; alla fine muore da Arthur per rinascere Joker. Cambia però il finale della sua canzone. Vorrebbe all’inizio morire in modo plateale per far perdurare gli effetti e dare un senso alla propria esistenza, ma il suo animo ballerino opta per l’istinto caotico e bestiale prima e per l’accogliere una sorprendente stima da parte dei cittadini rivoltosi del suo stesso ceto; inizia solo alla fine a raccontare una barzelletta, la più importante, quella sulla sua condizione di reietto (e in The Killing Joke di altra faccia della medaglia per Batman), ma come in precedenza cambia idea e opta per l’ennesima morte, visto che altri, quando era in condizioni critiche, avrebbero quasi fato lo stesso.

  1. Alla fine, Joker è un cinecomic?

Qui rispondo sì… e no. Nel senso che in America comic indica, per forza di cose, tutti fumetti, mentre in Italia associamo subito il termine al fumetto supereroistico americano, così come manga ai fumetti giapponesi. Quindi sì, tecnicamente Joker sarebbe un cinecomic, ma la semantica continua ad andare in direzione dei film del Marvel Cinematic Universe e al modo in cui sono prodotti, per cui non ha molto senso usare il termine per lavori come questo o, per fare un altro esempio lontano Popeye di Altman. Potremmo dire allora cinefumetti, così come negli USA si parla di comic book movie, quello forse aiuterebbe. Tuttavia mi preme dire che Joker non è per me una vittoria del genere supereroistico, in quanto rappresenta un unicum proveniente da un mondo seriale a cui si ispira prendendone subito le distanze: è ovvio dunque che non si tratta di un cinecomic nella comune accezione del termine, come potrebbe esserlo? E in ogni caso, forse, è ora di ricordarci che quello del cinecomic è solo una sorta di sottogenere come tanti altri e che parlare di semplici film gioverebbe di più alle discussioni. Capisco che, in effetti, si sia contenti che le vittorie ai festival di un film tratto da un’arte ancora snobbata come quella dei fumetti possa fare piacere (a me fa piacere), ma nel momento in cui il lento dramma e l’introspezione la fanno da padrone e prendono il sopravvento sull’elemento più fumettoso del personaggio Joker, allora, vale la pena difendere la categoria fino allo stremo? O meglio forse essere contenti e basta come spiega benissimo questo pezzo di #CineFacts (https://www.cinefacts.it/cinefacts-articolo-448/joker-il-cinecomic-che-non-lo-e-e-che-forse-ci-aiutera-a-smetterla-con-le-etichette.html?fbclid=IwAR1xXipbJ6sH68rRN1rMI_OEnhnt9EcDsX8ntq4x1NqwTQZqdEUMIOH4b9M)? Pensateci…

  1. Quella incarnata da Phoenix è la migliore versione di sempre?

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Ho lasciato apposta questa domanda per ultima, in quanto tra confronti e classifiche pare essere sorta una tifoseria molto accanita e non voglio sicuramente finirci in mezzo. Perché ognuno ha le sue preferenze e di conseguenza un Joker che sente più affine a lui e dando per presupposto che solo il tempo, come nel caso di Heath Ledger, ci dirà come sarà accolto questo Joker una volta passato l’entusiasmo, vi invito a rivedere il film pensando ogni volta ad Arthur Fleck come protagonista e al fatto che si ritrovi ad indossare i panni del Joker. Nel complesso non credo si arriverà mai ad eguagliare la bellezza di Batman: The Killing Joke o il lato disturbante di Arkham Asylum di Grant Morrison e Dave McKean, tuttavia, guardando solo al grande schermo, se i risultati sono questi e continueranno ad esserlo io sarò solo felice, felice di amare questo affascinante villain come di poter leggere una nuova storia consapevole che potrebbe arrivare un altro bel lavoro come questo. Voi nel frattempo evitate confronti e classifiche troppo soffocanti e sentitevi liberi di scegliervi il Joker che più vi piace.

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