Aspettando The Irishman, parte 3 – Bilanci e pronostici (I)

Parte 1 – Vicende produttive: https://joepicchiblog.wordpress.com/2019/07/21/aspettando-the-irishman-parte-1-vicende-produttive/

Parte 2 – Cast, personaggi e troupe: https://joepicchiblog.wordpress.com/2019/07/22/aspettando-the-irishman-parte-2-cast-personaggi-e-troupe/

Orbene, abbiamo ricapitolato il tragitto della nave e che abiti indossano i membri dell’equipaggio, resta solo da capire che bottino ci aspetta al rientro del vascello. Fuor di metafora, tenendo conto delle informazioni che abbiamo su The Irishman (racconto, personaggi, attori scelti, dettagli tecnici, ecc.), della particolare distribuzione che avrà e del percorso filmico compiuto finora da Scorsese, che pronostici possiamo fare? Cercherò di elencarvi i miei in 4 interrogativi, con tutti i pro e contro della situazione.

  1. De Niro: attore cotto?

In precedenza avevo affermato che, anche solo a livello di puro marketing, è il cast la punta di diamante del progetto ed obiettivamente è così. È palese che Scorsese abbia voluto riunire attorno a sé il meglio del meglio con cui si sia trovato a lavorare precedentemente, altrimenti non avrebbe pensato nemmeno per un secondo a richiamare svariati membri di Boardwalk Empire, terminata ormai cinque anni fa, o della sfortunata Vinyl, chiusa dopo una sola stagione per i bassi ascolti; ad ogni modo sono i tre Premi Oscar protagonisti ed Harvey Keitel a fare la differenza per i cinefili accaniti. Stiamo parlando di mostri sacri che nei suoi lungometraggi hanno lasciato un segno indelebile nella storia del cinema, in più la novità portata da Al Pacino è decisamente intrigante. Ma e se fino agli anni novanta sentire il loro nome dava un senso di sicurezza, anche minimo, su cosa sarebbe apparso sullo schermo, in seguito preservare il curriculum, di fronte all’età e ai guadagni da portare a casa, pare non essere stata la priorità. Ovviamente ciascuno di essi preoccupa in maniera diversa a seconda del grado di celebrità che ha tuttora.

Dal 2000 ad oggi, escludendo il 2008 e il 2011, sono usciti ben 48 film con Keitel, in pratica una media di 3 all’anno. Quelli memorabili o che gli hanno dato modo di esprimere tutto il suo valore sono stati pochissimi, però è stato scelto da registi come Wes Anderson in Moonrise Kingdom (2012) e The Grand Budapest Hotel (2014) o Paolo Sorrentino in Youth (2015) e il pubblico ha ancora fiducia in lui; potrebbe esserci del malcontento per lo spazio presumibilmente breve dedicato al suo personaggio, il padrino Angelo Bruno, ma stiamo parlando dello stesso attore che con la sceneggiatura brillante di Pulp Fiction (1994) e la direzione, per la seconda volta, di Quentin Tarantino è rimasto impresso nella memoria collettiva come Mr. Wolfe pur apparendo in dieci minuti scarsi, mentre qui abbiamo la penna di Steven Zaillian e Scorsese dietro la macchina da presa, perciò credo non ci sia nulla di preoccupante e che anzi il ritorno con l’amico Martin verrà valorizzato quasi quanto quello di Pesci. E quest’ultimo preoccupa ancora meno se pensiamo che in The Good Shepherd (2006) ha avuto solo un cameo, che Love Ranch (2010) non ha suscitato particolare dibattito e che il suo ultimo film prima dei due appena citati e del ritiro dalle scene nel 1999 è stato Arma letale 4 (1998), saga in cui non ha ricevuto altro che applausi per il ruolo comico di Leo Getz; avendo smesso di far parlare di sé da molto tempo le poche performance degli anni duemila non sono state giudicate, per forza di cose, come quelle nella parte costante della sua carriera e perciò la parte di Russell Bufalino avrà una risonanza ben diversa e verrà accolta con piacere.

In breve, quelli che più lasciano un certo margine di incertezza sono Pacino e De Niro. Amo entrambi per motivi diversi, ma è innegabile che questi ultimi vent’anni non siano stati generosi con loro e nemmeno il pubblico con le proprie aspettative. Tuttavia, se dovessi essere sincero, è De Niro a darmi da pensare, in questo momento. Innanzitutto per una questione di quantità. Prendiamo in considerazione, come per Keitel, le uscite dal 2000 ad oggi: 21 per Pacino, 43 per De Niro. E la differenza si fa sentire parecchio, specialmente nella tipologia dei film scelti. Intendiamoci, schifezze come Gigli (2003) e Jack e Jill (2011) sono difficili da cancellare, ma Pacino ha avuto modo di tenere alti i propri standard a mio avviso per 3 fattori: 1) l’esperienza teatrale incentrata su ruoli shakespeariani, che continua a perfezionare e che ha persino portato sul grande schermo nel 2004 interpretando Shylock ne Il mercante di Venezia; 2) nuove regie cinematografiche con opere particolari che esprimono le sue riflessioni sull’attore e mettono in scene opere a cui tiene molto; 3) una parentesi televisiva consistente con la miniserie di Mike Nichols Angels in America (2003) e i biopic You Don’t Know Jack (2010) e Paterno (2018) di Barry Levinson e Phil Spector di David Mamet (2013). Inoltre un personaggio trattato sì in modo riflessivo, ma in ogni caso energico e rabbioso come Hoffa è decisamente nelle sue corde.

Robert De Niro

De Niro invece fino al 2010 ha alternato film di vario genere in cui ha lasciato un certo segno per poi cristallizzarsi nelle commedie e avere ruoli sempre più secondari o poco incisivi, cosa che lo ha portato, secondo vari detrattori o critici, a recitare di malavoglia e non differenziarsi più con la sua consueta preparazione da method actor. Basti pensare che negli ultimi dieci anni ha brillato davvero solo in piccole parti di 3 film diretti da David O. Russell o interpretando il truffatore Bernie Madoff in The Wizard of Lies (2017), altro biopic televisivo di Levinson, mentre ha toccato definitivamente il fondo nel 2016 con Nonno scatenato (addirittura un ironico cartellone pubblicitario recitava “Uno dei più rispettati e leggendari attori della nostra generazione. E adesso questo…“), piegandosi a quella stessa comicità volgare e di bassa lega a cui era andato incontrò Al Pacino in Jack e Jill, con solo il Razzie ottenuto da quest’ultimo a dividerli. È pur vero che il suo impegno come produttore e portavoce di New York con la TriBeCa Productions lo fa rimanere lo stesso un distinto personaggio artistico, che di film davvero brutti nella sua filmografia ce ne sono sostanzialmente pochi e che tra i restanti molti sono, piuttosto, mal riusciti nonostante valide premesse. Il succo è che egli, semplicemente, ama il suo lavoro e pur potendo evitare certi scivoloni non dà troppo peso a quello che la gente pensa che dovrebbe fare, come preservare meglio la propria eredità o addirittura abbandonare il grande schermo. E in tutta onestà forse bisognerebbe fare lo stesso per The Irishman: ogni dubbio prima di vedere il film è sacrosanto, ma il pregiudizio dettato dall’attesa ha forse compromesso la nostra oggettiva percezione delle cose. Il progetto è in buona sostanza suo, lo voleva vedere realizzato a tutti i costi e ha voluto riunirsi con Scorsese solo in una simile occasione per aggiungere un tassello di valore al loro sodalizio: entusiasmo, impegno ed energia, tutti elementi che fanno solo ben sperare in un’ennesima grande interpretazione. Non ci sono certezze che sarà grande quanto quelle degli anni settanta e ottanta, ma dovrà per forza esserlo? Un’ultima perplessità, stavolta legittima, è quella del fisico: al di là dell’aspetto e della CGI, De Niro dovrà apparire in forma smagliante come Frank Sheeran, un’irlandese alto un metro e novanta, sicario molto robusto e in gioventù pugile dilettante. Ad essa rispondono la preparazione per Il grande match (2013), film in cui ha rispolverato i guantoni di Toro scatenato (1980) contro quelli del Rocky Balboa di Sylvester Stallone, e proprio Nonno scatenato, per il quale si è rimesso davvero in forma. Per questo, fino a prova contraria, De Niro resta un protagonista affidabile che non deve certo dimostrare più alcunché e le cui recenti prove non metteranno mai in discussione quelle del passato; sulla vecchiaia sua e degli altri torneremo al terzo punto.

Fonte principale

Il PostDe Niro si sta buttando via? (https://www.ilpost.it/2016/01/22/de-niro-si-sta-buttando-via/amp/?fbclid=IwAR2YK0rXGdpr1ZMFTI44AA4mf4ml8y_mdl6-Jo25vP7X4L5Aqya-s7OvEPQ)

 

  1. Tutta la verità?

Una questione ben più spinosa riguarda invece il soggetto della pellicola, ovvero il contenuto di I Heard You Paint Houses di Charles Brandt. Per quanto il libro non abbia avuto una risonanza esattamente mondiale, fece comunque discutere gli esperti del settore e molti tuttora non credono alla versione di Sheeran sui fatti chiave. Il che è perfettamente normale in un saggio destinato ad una certo fascia di lettori e creato apposta per essere messo in discussione, ma su schermo le cose cambiano. Una pellicola (e in generale ogni opera) equivale sempre, per quanto realistica e verisimile possa essere, ad adottare un punto di vista, ponendo il fine artistico e lo svolgimento drammatico sopra ogni pretesa di verità e, teoricamente, anche il fruitore ne è al corrente. Consideriamo ora la questione da un punto di vista squisitamente etico utilizzando qualche film: Berretti verdi di e con John Wayne (1968), La caduta – Gli ultimi giorni di Hitler di Oliver Hirschbiegel (2004) e tutti i film di Scorsese tratti da storie vere. Il primo porta in scena la trasposizione di un romanzo, ergo una trama fittizia, filtrandolo con una visione profondamente repubblicana, nazionalista, anticomunista e favorevole al conflitto in Vietnam senza tener conto delle ragioni del nemico o mettere in discussioni il governo del Vietnam del Sud e quello statunitense; di conseguenza, per quanto sia una storia inventata, Berretti verdi finisce per fornire una rappresentazione talmente inverosimile di un simile evento storico che non è scorretto definirlo un vero e proprio atto di propaganda. Il film tedesco, dal canto suo, aveva un compito davvero difficile da portare a termine (nelle parole del tabloid Bild: “Siamo autorizzati a mostrare il “mostro” come un essere umano?“), eppure riuscì a guadagnarsi le lodi di pubblico e critica. In primis grazie all’interpretazione data dal compianto Bruno Ganz, in secondo luogo grazie alle modalità scelte per ritrarre la fine dell’aprile 1945 nel Führerbunker. Il confronto tra testimonianze di testimoni oculari e fonti storiche diverse è servito per dare un’accurata verisimiglianza e far sì che la tragicità degli eventi non venisse percepita come di parte; ne deriva innanzitutto un ritorno del cosiddetto mostro al “nostro” livello e quindi un contrasto efficace tra l’immagine che abbiamo del dittatore e quella di un uomo che sente su di sé il peso della sconfitta impostagli dal destino in cui crede ciecamente. L’obiettivo è in questo caso riuscito perché il film inventa dialoghi, crea scene, inquadra seguendo determinati punti di vista, ma non perde di vista i fatti e la Storia, restituendola in maniera genuina senza risultare pedantemente documentaristico.

Scorsese movies

I film di Scorsese si pongono più o meno nel mezzo poiché si basano sì su fatti storici e biografie dettagliatissime, tuttavia il motivo per cui sono rimasti nella memoria è sostanzialmente il motivo per il quale sono stati scelti, ossia il tema di un personaggio importante che si autodistrugge dopo un particolare successo e ricapitola ogni cosa facendo i conti con i propri errori nella sua professione tanto quanto nella sua vita privata. Questa formula, presente da Toro scatenato (1980) fino all’ultimo The Wolf of Wall Street (2013) e che verrà rimarcata in questo The Irishman, costituisce un terzo della filmografia di Scorsese ed è praticamente il suo tipo ideale di racconto. E ‘ideale‘ è decisamente l’aggettivo più consono. Che si parli dello stile più cronachistico di Quei bravi ragazzi (1990) e Casinò (1995) o della magnificenza epica di The Aviator (2004), la presenza della suddetta formula fa sì che siano più chiari gli intenti e si perdonino, anzi, si apprezzino determinate scelte stilistiche al fine di sottolineare il discorso in maniera comunque cruda e diretta. Ciò significa che il realismo a tutti i costi viene messo a dura prova, ma la verosimiglianza non viene meno perché, a differenza di John Wayne, a Scorsese non manca l’onestà nel mostrare determinate cose, specialmente un protagonista negativo, per cui è difficile dubitare di lui. Questo, appunto, fino a The Irishman, dove viene sentita una sola versione di avvenimenti importanti il cui dibattito è ancora aperto e sfuggente nella storia americana e, a differenza di Quei bravi ragazzi e Casinò, vengono fatti nomi e cognomi, quindi è impossibile non associare un volto e la sua storia quando sono chiamati in causa. Inoltre, anche in precedenza le biografie di Scorsese hanno riguardato persone ancora in vita, ma stavolta più che mai alcuni avrebbero da ridire su ciò che sarà mostrato; basti pensare anche solo al fatto che Peggy e Dolores Sheeran, la seconda e la terza figlia del primo matrimonio di Frank, hanno sviluppato un rapporto completamente diverso col padre e che il film si focalizzerà su quello di Peggy, tendenzialmente negativo, per pure esigenze di trama.

E come faranno quindi delle confessioni che, dando credito ai detrattori, potrebbero essere al 50-60% false a sposarsi con il tipico modo di girare di Scorsese? Come mai proprio lui, che ha sempre selezionato storie “di nicchia” o non ricordate a sufficienza e le ha rese immortali grazie alla produzione che aveva alle spalle, ne ha presa una conosciuta in più versioni scegliendo quella di un possibile bugiardo col rischio di fornire una falsa risoluzione a cui il pubblico generalista, non interessato al caso Hoffa o dotato di poco spirito critico, darà credito a discapito di altre indagini? Per capirci, è come se un regista di punta realizzasse un film che riveli la verità sul caso Emanuela Orlandi e ci fosse il sospetto che gli indizi siano frutto della mente di un mitomane: per quanto bello non avrebbe la credibilità né sicuramente l’onestà necessarie per farsi valere sull’argomento o addirittura rimanere impresso. Il caso è tuttora irrisolto e non sarà certo un film a cambiare le cose, ma a livello produttivo si imporrà sugli altri prodotti in passato e una posizione così fortemente soggettiva si distaccherà enormemente, per esempio, dal racconto a vicende concluse di un Henry Hill o un Sam Rothstein. Non insisto a caso poiché è quasi impossibile non collegarsi, con i dovuti paragoni, a Quei bravi ragazzi e Casinò, trattandosi di un gangster movie. E le similitudini non finiscono qui. Se Toro scatenato, Kundun (1997) e The Wolf of Wall Street sono autobiografie filtrate dall’occhio di uno sceneggiatore e di Scorsese regista, i due film sopracitati si distinguono nettamente per provenire da scritti di non-fiction, ovvero di ricerca tramite interviste al diretto interessato e ricostruzione con altre testimonianze, sceneggiati dallo stesso autore assieme a Scorsese; nello specifico a fare di Quei bravi ragazzi e Casinò i capolavori che sono è stata la felice trovata di riproporre su schermo il minuzioso taglio da inchiesta di Nicholas Pileggi, grazie al quale nulla di importante è stato sacrificato nelle trame e la resa finale non pecca di mancanza d’approfondimento (in effetti mi sono stupito che non sia stato richiamato per The Irishman). Brandt ha comunque contribuito a rivedere l’ultima stesura della sceneggiatura in un meeting ed ha asserito che sia fedele al testo e alla persona che fu Sheeran quando lo conobbe, perciò abbiamo un minimo di garanzia grazie a molteplici occhi critici sulle confessioni del criminale.

C’è tuttavia un paletto da porre: Il delitto paga bene e Casino: Love and Honor in Las Vegas trattavano eventi “minori” della Storia americana e i meccanismi nascosti della stessa (come la gestione dei casinò di Las Vegas da parte del Chicago Outfit); qui, anche se sempre con le rivelazioni di un singolo, si punta più in alto, alla famiglia Kennedy, il legame tra mafia e politica, la situazione sindacale degli anni sessanta, ecc., ovvero argomenti scottanti e complessi a cui sono stati dedicati decine, centinaia di saggi e documentari. Nel film verranno presumibilmente toccati in maniera trasversale, risultando secondari alla tragicità e alla malinconia evocate, ma in ogni caso, come detto sopra, ciò si traduce nell’assumere una posizione netta e chiara, fallace per alcuni, su di essi e presentare per forza di cose una risoluzione all’enigma Hoffa come il saggio originale intendeva fare, a meno che non si usino degli stratagemmi per far capire che Sheeran possa mentire. D’altro canto pure Pileggi aveva conosciuto Henry Hill e Sam Rothstein (o meglio, Frank Rosenthal), non c’è però dubbio che, mediante la sua supervisione, il distacco dalle loro osservazioni rivolte direttamente al pubblico fosse totale, in modo da trasformare spettatore e macchina da presa in un altro attore, in una presenza invisibile, un occhio imparziale sulle loro vicissitudini e azioni. Di più: Pileggi era l’occhio imparziale (con Scorsese, ovviamente), la linea di demarcazione fredda e chirurgica fra la gente comune e la figura fascinosa del criminale che vive nel lusso e nell’abbondanza senza faticare come gli altri. Non è detto che non si avvertirà la stessa cosa anche in The Irishman, tuttavia, visto il taglio più emotivo che Scorsese intende adottare, l’assenza di Brandt come voce narrante portatrice di una verità presunta ma quantomeno verificata potrebbe, più che rappresentare un problema, lasciare il fianco scoperto a critiche su passaggi nient’affatto scontati in cui la sua guida era necessaria, almeno nel libro. Ribadiamo, il film non porrà la parola fine alla questione, tuttavia siamo nell’epoca di internet e dell’informazione rapida, si legge sempre meno, si dubita tanto e si verifica poco e dunque anche un’opera di finzione cinematografica, per quanto priva di doveri morali, pedagogici o legali, viene presa come riferimento, specialmente dalla massa di persone attirata dai nomi del progetto (per quanto prevarranno gli appassionati del genere e gli accaniti fan del regista o degli attori).

Tra le varie riflessioni che il canale YouTube The CineRanter ha fatto da lettore del libro, appassionato di cinema e non-esperto sull’argomento mafia ce ne è una che riguarda da vicino la questione. Alla domanda “E se Frank Sheeran stesse mentendo?” egli risponde che le sue parole potrebbero aver alterato o dissimulato, ma ciò che è accaduto, nel complesso, è possibile, verisimile, e che Scorsese potrebbe trovare, come detto poc’anzi, un modo per mantenersi ambiguo; in effetti sarebbe un notevole tocco di classe per tenerci in bilico tra l’empatia verso l’anziano malato che avremo davanti e il disgusto per l’omicida che dichiarerà di essere stato. Tirate le somme, io credo sia meglio non darsi troppe preoccupazioni perché, anche senza accogliere a braccia aperte la versione di Sheeran, se il film non si porrà obiettivi più grossi di quelli che vuole ottenere non si sentirà la differenza e la maggioranza del pubblico verrà soddisfatta, probabilmente anche gli esperti schieratisi contro I Heard You Paint Houses, proprio per il fatto che verranno sottolineate altre cose. Ad esempio il perché Sheeran si sia confessato all’ultimo momento, quali avvenimenti lo hanno segnato di più e forse gli anni successivi alla scomparsa di Hoffa, abbastanza trascurati nel libro per più di un motivo. Si possono vedere tanti pro quanti contro a seconda della preparazione specifica riguardo l’argomento mafia statunitense, per cui non ci resta che aspettare e verificare come Scorsese si sia posto davanti a questa storia potenzialmente controversa e ad avvenimenti importanti il cui dibattito è ancora aperto e sfuggente. E Netflix con lui, ovviamente, specialmente da produttrice di serie documentaristiche notevoli come The Keepers.

Fonte principale

The Irishman | What if Frank Sheeran was lying? (https://www.youtube.com/watch?v=o3SKKtqbtUQ)

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